24 ottobre 2010

Goodbye Ari

Scopro solo ora che mercoledì scorso (il 20 ottobre) se ne è andata Ari Up, a causa di una brutta malattia.

Nota soprattutto come cantante delle Slits, Ari è stata una delle più convincenti rappresentazioni di ciò che una donna può essere se decide di liberarsi dalle restrizioni sociali e di far saltare ogni convenzione di genere.

Dopo aver partecipato, giovanissima, al movimento punk della prima ora, ed aver pubblicato due album con le Slits, mollò tutto per andare a vivere nella giungla (Indonesia e Belize, per poi stabilirsi in Giamaica). E' stata un'appassionata sostenitrice della cultura rasta e soprattutto della vita naturale, oltre ad aver continuato a sperimentare la sua originale fusione di punk, reggae, dub e dancehall, pubblicando album fino a pochi anni fa.

La notizia della sua scomparsa è stata data dal sito di John Lydon, il quale molti anni fa sposò Nora, la madre di Ari.
In questi giorni Nina Hagen stava postando numerosi video di Ari sulla sua pagina di Facebook. Incuriosito, ho fatto una ricerca su Google e ho scoperto che non si trattava di un caso. Lo scrivo perchè ho passato due giorni a pensare quanto mi piaceva Ari guardando quei video, e poi ho scoperto che la mia era stata una commemorazione inconsapevole.

Qualche tempo fa avevo apprezzato un semplicissimo post della Discarica Emozionale: una carrellata di foto di Ari. Si intitola "un amore senza fine".

Da poco avevo letto la sua intervista in Totally Wired di Reynolds. Una delle sue risposte, in merito al primo periodo delle Slits, era la seguente: "Anche se nel comportamento ero questa scandalosa ragazza anarchica, la componente spirituale mi prese da subito." Credo che questa frase riassuma la sua esperienza e quanto ha saputo lasciarci.

Ma ripensandoci forse mi piace anche di più la frase di chiusura dell'intervista: "l'idea dell'essere donna nella dancehall è che non puoi imporle un cazzo!"

23 ottobre 2010

Uova Fatali

Due parole su questo blog.

Non c'è bisogno che vi spieghi di cosa tratta: musica, musica, musica. In grande preponderanza, sebbene la parola non mi piaccia molto, recensioni. Di dischi, a volte di libri o video, sempre più raramente di concerti (non perchè non ci vada ma perchè non ho tanta voglia di parlarne). Mi piacerebbe argomentare più spesso di copyright, mercato, e così via, ma l'argomento è complesso e richiede tempi di approfondimento non sempre concessi a chi ha anche un lavoro e altri progetti da portare avanti.

Scrivo queste due righe per chiarire un aspetto relativo alle date di pubblicazione dei post. Non considero questo blog un lavoro ne' una vetrina. Lo tratto come se fosse un diario delle mie cogitazioni sulla musica che ascolto. A causa di questa impostazione, non do molta importanza all'ordine di pubblicazione. Spesso inizio a scrivere di qualcosa in una certa data, poi interrompo la stesura, dimentico il post, giorni dopo lo ritrovo nella lista, butto giù altre due righe, lo abbandono ancora. Magari un mese dopo correggo due virgole, aggiungo una chiusura e lo pubblico. In genere, nel farlo lascio al post la data di quando ho iniziato la stesura. Qualcuno mi ha detto che è strano, addirittura che potrebbe non sembrare onesto.

Beh, posso anche capire, ma io non ci avevo mai pensato. E poi mi sa che - a causa di fenomeni nei quali non mi vorrei addentrare - ad alcuni inizi a sfuggire cosa sia un blog. Se io ho scritto una recensione sul disco degli Underworld il 28 di settembre, ma poi l'ho pubblicata oggi, qual'è la data interessante da un punto di vista del mio diario? A me sembra che sia quella in cui ho avuto voglia di parlare degli Underworld. Che a voi che la leggete sia stato infilato solo oggi il foglio sotto la porta della cameretta, a me pare ininfluente. Quelli sono pensieri del 28 settembre, più o meno.

In questi giorni sto riversando nel blog una ventina di articoli lasciati in sospeso. Li scrivevo ma non avevo voglia di metterli sotto la luce del web. Ora verranno fuori ognuno con la propria data, un po' alla volta. Buona lettura, se vi va.

13 ottobre 2010

Il dissenso di Jaz

Torno spesso ad occuparmi dei Killing Joke, e per un motivo assai semplice: poche band hanno saputo tenere un profilo così alto nell'arco di una carriera trentennale. A questo si potrebbe aggiungere che sono uno dei miei gruppi preferiti, ma di gruppi preferiti comincio ad averne decisamente troppi perché quest'etichetta abbia ancora un senso.

La storia dello "scherzo che uccide" parte nei primissimi anni '80, con un'infilata di album straordinari (obbligatorio almeno il primo disco omonimo), che sono storicamente assimilabili alla new wave ma musicalmente caratterizzati da un amalgama molto originale di punk rock, elettronica e ruvidezze quasi metal, nel quale si innestano i testi politicizzati e arrabbiati che resteranno il marchio di fabbrica del leader Jaz Coleman. Nel 1985 arriva anche il successo commerciale con Night Time, un disco lodato anche dalla critica sebbene molto più patinato e orecchiabile dei lavori precedenti. Segue poi una inevitabile decadenza, con album meno apprezzati ma ancora di tutto rispetto, tra i quali si stagliano dei picchi d'eccellenza quali il monumentale Extremities, Dirt & Various Repressed Emotions del 1990. Nel 1996 il progetto va in letargo, e vi resta fino al 2003, quando il marchio ritorna con un nuovo disco omonimo. Lo stile di quell'album è duro, arrabbiatissimo, attuale e anche stupefacente se si considera l'età anagrafica dei musicisti coinvolti. Il seguito Hosannas from the Basements of Hell del 2006 non faceva che confermare lo stato di grazia della band, che tra le altre cose si prendeva la soddisfazione di riappropriarsi dell'eredità lasciata ad una intera generazione di musicisti degli anni '90.

Poi veniva la scomparsa del bassista Paul Raven a scompaginare i piani e a dare un'apparente battuta d'arresto. Negli ultimi anni sembrava che i Killing Joke fossero dediti più che altro alla pubblicazione instancabile di ristampe e live, quasi a voler sfiancare i propri fan, anche i più irriducibili. Non mi aspettavo dunque che il 2010 vedesse la comparsa di un disco convincente come questo nuovo Absolute Dissent. Riunita addirittura la formazione originale (Jaz Coleman, il fedele Geordie alla chitarra, Youth al basso e Paul Ferguson alla batteria) è stato sfornato uno dei capitoli più compatti, militanti e assassini della storia trentennale del marchio KJ.

Il disco sembra quasi studiato per respingere gli ascoltatori meno pazienti. Pochissime concessioni alla melodia (che emergesolo in alcuni brani posti più avanti nella scaletta), batterie poderose, bassi sferraglianti e chitarre grattugianti e corrosive concorrono alla creazione di un muro sonoro ben poco amichevole, sul quale Coleman stende i suoi proclami anti imperialisti, con visioni apocalittiche dalle quali è difficili dissentire. Mentre il dissenso assoluto va al mondo che ci circonda, alla politica in tutte le sue forme, ad una umanità che prepara la propria auto distruzione.

Non fraintendetemi: non è questo, per forza, il compito della musica, e il sottoscritto non è abbastanza ingenuo da credere che dire queste cose in un album possa servire a qualcosa. Ma il grido feroce di Jaz Coleman è parte necessaria in un mondo che se le canta e se le suona senza guardare fuori dalla finestra di casa propria, e spesso nemmeno dentro casa propria.

Grinderman 2

Eccolo qua il secondo capitolo dell'arrotino, ossia il side project più anomalo della storia.

Cerchiamo di vederla dal punto di vista di chi non conosce i protagonisti. Un tale (Nick Cave) pubblica una valanga di album con una band (i Bad Seeds), che è composta da un cospicuo numero di membri (alcuni dei quali entrano ed escono). Ad un certo momento, prende una delle qualsiasi formazioni variabili della band medesima, anzi ne prende proprio i membri più fedeli, e decide che questa compagine ridotta costituisce un gruppo a se' stante (Grinderman). A questo punto pubblica un album con questo nome differente, sollevando la non trascurabile questione di come la prendano i membri residui che se ne restano a casa. Suona un po' strano, no?

La cosa più sorprendente in tutto questo è che la mutazione da Bad Seeds a Grinderman si è rivelata sostanziale oltre che formale. La band a quattro (Warren Ellis, Martyn Casey e Jim Sclavunos oltre a Nick Cave) sembra infatti possedere una freschezza ed un'immediatezza che parevano smarriti nei Bad Seeds degli ultimi anni.

Diviso recentemente tra la scrittura di romanzi (Buddy Munro), la composizione di colonne sonore (The Road) e l'abituale lavoro con la band principale, il vecchio Re Inchiostro ha dunque trovato il tempo anche di realizzare questo Grinderman 2. Il disco scorre via liscio liscio e conferma l'idea che i nostri vogliano riportare in vita lo spirito delle origini: quello più ruvido e diretto che pervadeva i Birthday Party e i primi Bad Seeds.

Restano dubbi sulla qualità delle composizioni: pur non scadendo mai in una clamorosa insufficienza, non sempre i brani valgono molto più della loro stessa confezione, e questa forse è una conseguenza inevitabile degli anni che passano per Nick & Co. come per tutti gli altri.

3 ottobre 2010

Black Mountain al terzo capitolo

I Black Mountain meritano una menzione d'onore per aver realizzato la classica missione impossibile. Hanno mescolato influenze assortite dagli anni '70, hanno usato solo strumentazione assolutamente "vintage" dell'epoca, hanno adottato un abbigliamento hippy in puro stile "peace & love", hanno puntato su cose davvero arcaiche come "psichedelia", "riff hard rock", "space rock", tutto questo senza sembrare pezzi da museo dal sentore di naftalina, ma anzi facendosi apprezzare a destra e a manca come genuina novità in questi anni '00 dall'identità evanescente.

Il terzo album giunge come conferma di un gruppo che ormai non ha nulla da dimostrare, anzi può permettersi di giocare con la propria formula sperimentando qualcosa di diverso. Abbandonati dunque - credo temporaneamente, ma questo si vedrà - i brani lunghi e strutturati, e accantonati i riff più hard e gli elementi più "estremi" del repertorio, nel nuovo Wilderness Heart i nostri sfoggiano l'anima più pop, con canzoni da tre minuti che delizieranno i nostalgici delle classifiche dei seventies, lasciando magari più freddi quelli come me che amavano i momenti più heavy e le cavalcate psichedeliche.

Si tratta senza dubbio di un disco godibile. Come già detto, non mi fa impazzire, ma si sente tanto mestiere ed una vena melodica non comune. È un tassello in quella che potrebbe diventare una storia anche molto lunga se la band saprà continuare a reinventarsi e non si farà spazzare via con la moda della strumentazione polverosa e delle foto virate sul rosso in stile "vecchie vacanze di papà e mammà", un filone che certamente diventerà stantio nel giro dei prossimi mesi.