26 agosto 2012

UnDead Can Dance

Sedici anni di pausa non sono pochi, e come spesso ho sostenuto in queste mie paginette, bisogna che ci sia un buon motivo per tornare alla carica, soprattutto quando c'è a rischio una reputazione.

A differenza di altri nomi che si sono riformati per dare alle stampe nuovo materiale (Ultravox, PIL) i Dead Can Dance possono vantarsi di non essere mai usciti dalle grazie della critica. A parte qualche mugugno per l'ultimo Spiritchaser - al quale venivano imputati un calo di ispirazione ed un eccesso nelle ambizioni "world" - nessuno ha mai veramente messo in dubbio la qualità delle uscite della band.

E a differenza di tutte le "vecchie glorie" della loro generazione, i DCD possono vantare due carriere soliste degne di rispetto, e probabilmente economicamente soddisfacenti (anche se sospetto che la Gerrard abbia incassato molto più di Perry, non fosse altro che per pubblicità e colonne sonore...).

Insomma, questi due devono proprio aver sentito nostalgia del vecchio marchio, altrimenti perchè farlo?

Me lo chiedevo prima di ascoltare l'album e me lo chiedo ancora. Se ai tempi di Into The Labyrinth e del già citato Spiritchaser, si poteva pensare che l'inevitabile declino d'ispirazione e le oggettive difficoltà nell'imboccare strade nuove, avrebbero forse dovuto indurre il duo a staccare la spina al progetto - cosa che poi hanno effettivamente fatto - le stesse identiche cose si possono sostenere adesso. L'album è bello se preso in se', senza considerare la storia della band, ma presenta una formula stanca e non aggiunge alcun elemento che ne giustifichi l'esistenza. Mi aspettavo qualche nuova idea, qualche magia inaspettata, ma purtroppo nulla di tutto ciò. Anastasis è soltanto una riproposizione di schemi già noti e nulla più.

Non voglio dire con questo che ve ne sconsigli l'ascolto. Io l'ho acquistato e non me ne pento. Le due voci sono ancora un bel connubio, lo stile è ancora valido, la capacità di scrittura ancora solida. Ma il brivido che provai ai tempi di Serpent's Egg è decisamente lontano. Come pure è lontano il gusto che mi diedero gli arrangiamenti non scontati dell'ultimo album di Perry, che con tutte le sue problematiche, mi pare una prova superiore (quanto meno, in termini di coraggio) a quella generata da questa reunion.

9 agosto 2012

Oceania

Non mi sarei mai aspettato di appassionarmi alle vicende di Billy Corgan e dei suoi Smashing Pumpkins 2.0 (o 3.0 o qualsiasi numero si voglia).

È accaduto però che Zeitgeist (il lavoro scaturito dalla "reunion" del 2007), ascoltato quasi per caso, non mi fosse dispiaciuto, e quindi ho avuto una certa curiosità per questo nuovo Oceania.

I tempi in cui le zucche erano un'alternativa al grunge di Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam sono passati da un pezzo, ed anche quel certo fascino di stampo adolescenziale che poteva avere la band negli anni '90 è evaporato completamente. Ormai si tratta meramente di un progetto guidato da un Billy Corgan di mezza età, il quale ha preferito mantenere sulle copertine il nome della sua vecchia band piuttosto che presentarsi come solista.

Lasciando stare ogni commento su quanto sia sensata la scelta di continuare ad usare il nome di una band che non esiste più (dopotutto il nome è suo, ci faccia quello che gli pare), mi pare interessante ossservare che in questi due album si trovano momenti più che rispettabili, non puramente nostalgici, autoreferenziali o ancora peggio pretestuosi. I nuovi Pumpkins sono autori di un rock piuttosto maturo, valido e ben suonato, a dispetto di quanti si ostinano a voler misurare Corgan su un eterno confronto con Siamese Dream o Mellon Collie - un album che tra l'altro, pur con i suoi indiscutibili meriti, non mancava di annoverare un buon numero di tracce riempitivo.

L'unico problema è costituito dal fatto che Corgan e i suoi sono adesso un fiume in piena. Anche tralasciando la vasta quantità di materiale affidato solo alla rete (per motivi di anzianità mi occupo solo di musica "fisica"), questo lavoro, come il precedente, consta di una scaletta lunga sia per quantità di brani che per durata dei medesimi. Inutile dunque sottolieare che questo è il principale difetto dell'operazione: mettendo in scaletta solo gli otto-nove brani migliori, si sarebbe sfiorato il capolavoro, siamo invece di fronte ad un album che a metà strada ha già iniziato a stancare.

Ahimè, ormai quasi nessuno resiste alla tentazione di riempire un CD di tutto quanto si riesce a farci stare, e ci è andata bene che non si sia pensato ad un doppio. Comunque, per chi ha voglia di farsi la propria scaletta, qui si troverà abbastanza di meritevole.