10 aprile 2013

Crime & The City Solution, American Twilight

Mi ha incuriosito molto la rivitalizzazione del vecchio marchio di fabbrica dei Crime And The City Solution, e infatti ve ne avevo dato notizia già da molto tempo. Non si può parlare di "reunion", ma solo di ritorno di un nome glorioso, perchè come sempre tutto ruota attorno all'unico membro permanente della band, ossia il cantante Simon Bonney. Dell'ultima formazione ci sono il violinista Bronwyn Adams e il chitarrista Alexander Hacke (più noto per la militanza negli Einstürzende Neubauten), mentre i nuovi innesti ne fanno praticamente una nuova band: al terzetto si sono aggregati il tastierista Matthew Smith, il batterista Jim White (dei Dirty Three), il bassista Troy Gregory (ex dei Dirtbombs), il chitarrista David Eugene Edwards (ex 16 Horsepower, attualmente leader dei Woven Hand), e infine l'artista visuale Danielle de Picciotto.

Otto componenti costituiscono un collettivo forse un po' eccessivo per un disco di rock alternativo, ma questa abbondanza ha senso se si considera l'album per quello che effettivamente è: una grande rimpatriata al desco del padrone di casa Simon Bonney. I musicisti coinvolti, sebbene dai caratteri diversi e con personalità forti (si pensi al solo David Eugene Edwards, che abituato ad essere al centro della scena, qui fa da comprimario assieme ad altri due chitarristi), provengono da un'area artistica che ha una sua forte coesione interna, per linguaggio, temi, sonorità. C'è dunque, nonostante il pesante cambio d'organico, un deciso senso di continuità col passato. Già nella traccia di apertura, ad esempio, si possono riscontrare pesanti echi dello stile del compianto Rowland S Howard, membro dei Crime del primissimo periodo (assieme a Mick Harvey ed Epic Soundtracks), nonchè animatore dei Birthday Party e dei This Immortal Souls.

Ma se l'album guarda al passato e ad una scena che ha già detto moltissimo, e non si affanna in alcun modo a cercare strade innovative, alla resa dei conti dell'ascolto non suona come un inutile rifacimento di cose vecchie. Nelle otto tracce che lo compongono si può apprezzare la voglia di fare musica in modo sentito e passionale, a volte con mestiere ma in modo mai banale. I brani migliori sono la lunga cavalcata Goddess, la ballata My Love Takes Me There, il quasi gospel di Domina, ma anche la title track American Twilight se la gioca bene, assieme ai rimandi (in questo caso volutamente citazionisti) di River Man. Un disco solido, insomma, anche se manca di quel guizzo che avrebbe potuto renderlo indimenticabile. Una implicita conferma di quanto sia difficile per questa generazione, pur restando su livelli altissimi, continuare a sfornare opere essenziali. Da Nick Cave in giù si tratta di un genere oramai piuttosto logoro, e dopo trent'anni di persistenza sulla scena non è lecito aspettarsi nulla di meglio di questa pur buona prova di ritorno.

Nessun commento: