28 settembre 2010

Barks from the Underworld

Io amo gli Underworld.
Questo disclaimer è d'obbligo quando ci si accinge a parlare di qualcosa su cui si rischia di essere poco obiettivi. Già tre anni fa avevo recensito Oblivion With Bells con una certa enfasi. Non vorrei che ora mi diceste che non vi avevo avvisato quando userò toni analoghi per il nuovo album.

Barking è un disco inaspettato. Prima di tutto, non avevo notato segnali dell'imminente uscita di nuovo materiale. Eppure un'occhiata sporadica al sito della band la butto sempre, anche solo per verificare le mutazioni del sito stesso. Secondo, la coloratissima copertina è decisamente una innovazione. Ci ho messo un po' a convincermi che si trattasse proprio degli stessi Underworld di Karl Hyde e Rick Smith. In terzo luogo, e qua sta la vera sorpresa, siamo di fronte ad una sterzata evidente dallo stile del precedente album.

Spieghiamoci meglio. Oblivion With Bells era un album nel quale avevo ritrovato quanto più avevo gradito dei primi Underworld: atmosfere quasi oniriche, un'elettronica fredda in superficie ma straordinariamente calda grazie all'uso estremamente particolare della voce. Un connubio raro, capace di creare uno stato di trance ipnotica: le parole sparpagliate su architetture frammentarie in modo da indurre stati d'animo sfuggenti ma profondi. Una specie di catarsi psichica, nella quale mi piace abbandonarmi come sotto l'effetto di una droga priva di effetti collaterali. Barking è invece un disco che presenti anche elementi decisamente più solari, con momenti che si potrebbero dire più convenzionali per un album dance, ma che conferma uno stile assolutamente unico e che centra l'obiettivo di offrire un ascolto più immediato ma anche la possibilità di approfondimenti successivi.

L'apertura è affidata a Bird 1, un pezzo che sfoggia subito una mescolanza di spensieratezza e nostalgia, due sensazioni che solo questa band riesce a fondere in modo così perfetto.
Con Always Loved A Film invece ci si getta in atmosfere molto più festose, sebbene stemperate continuamente da intermezzi di tono minore che non fanno altro che accentuare i ritorni dei refrain. Un elemento di questo brano che resterà costante nel disco è un approccio a tratti più "cantato" da parte di Hyde, scelta che porta alcuni pezzi a convertirsi quasi in canzoni, nonostante le strutture restino come da tradizione totalmente aperte.
L'evoluzione prosegue con Scribble, un inno alla gioia da dancefloor con synth poderosi e sonorità che per qualche motivo mi riportano alla mente le scorribande di Beacoup Fish.
La quarta traccia Hamburg Hotel interrompe l'escalation verso lidi danzerecci, proponendo un gioco di sequencer molto geeky, che si evolvono verso ritmiche complesse e stratificazioni di pad fino a quando un astruso giro di basso ribadisce la maestria del duo nel costruire architetture inaspettate e sorprendenti.
Grace si apre con uno dei più tipici recitati alla Hyde, per un brano che potrebbe venire diritto diritto dalle sessioni di Orblivion With Bells. "In the underground, in the underground there is not what I expected".
Stesso ambiente per la successiva Between Stars, fino a quando una sorta di ritornello atipico apre il pezzo trasformandolo in un inno involuto e sconcertato, qualcosa che non mi avrebbe stupito nella tracklist di Dubnobasswithmyheadman.
Diamond Jigsaw è forse la traccia più spiazzante del disco, un'allegra canzone pop nella quale pochi noteranno gli evidenti richiami alla fase pre-elettronica degli Underworld (quando i nostri non avevano ancora trovato l'alchimia perfetta dopo avere sciolto i Freur).
l'album si chiude con Moon in Water e Lousiana, due pezzi atipici e al tempo stesso molto Underworld. Nel primo una voce femminile recita un lungo monologo sulla luce della luna su sequencer di ispirazione ambient e guizzi electro, il secondo è una sorta di morbida ninna nanna basata sul solo piano e sulla voce di Hyde, che chiude degnamente un disco variegato e decisamente non abbaiato come invece lo strano titolo avrebbe potuto far pensare.

Una doverosa nota per i collezionisti: il DVD accluso all'edizione doppia contiene un video per ogni traccia dell'album, una chicca che vale la spesa. Pochi giorni dopo l'acquisto dell'album mi sono invece accorto dell'esistenza di una edizione maggiore, dotata anche di un grosso volume cartaceo e di un CD di remix. Maledizione.

18 settembre 2010

Un po' di metallerie di ritorno

Questo accidenti di The Final Frontier (quarto capitolo della saga degli Iron Maiden dal rientro di capitan Bruce Dickinson) è uno dei migliori esempi di quello che io chiamo la "peste delle recensioni".
Parte un recensore - probabilmente sordo o appassionato di bossa nova - che in anteprima assoluta dice che l'album è stupendo, "un ritorno in gran forma" o adddirittura "il disco migliore della band". Qualcuno copia questa scemenza in rete, la cosa si diffonde e ormai per tutti l'album diventa il più atteso dell'anno.
Seguono buoni feedback sulle riviste di settore, parole trionfali in bocca a negozianti che non ascoltano musica e chiacchiere da bar tra appassionati che però ancora devono ascoltare una sola nota.
Poi finalmente ascolti il disco e il bubbone esplode.
Si, perchè The Final Frontier è un disco moscio, stanco, privo di idee e soprattutto noioso come un documentario sullo svernamento delle talpe normanne. Se siete curiosi, ascoltate solo la prima traccia e non ci sarà altro da aggiungere.

Molto strano invece il caso del nuovo disco di Ozzy Osbourne. Come tutti sapete, il signore in questione è affetto da malattie nervose d'ogni genere, ha smesso di fare buoni dischi dall'89 e si è reso ridicolo agli occhi del mondo mettendo in piazza la propria terrificante famiglia in uno dei reality più seguiti della già orrenda storia della TV americana. Ciononostante, è ancora molto amato dai fan del metal, che ne rispettano lo status di padrino del genere grazie alla storica militanza nella più grande band di sempre (questa è una di quelle stupidaggini che puoi scrivere tranquillamente perchè nessuno può veramente contestarle), ossia gli immani Black Sabbath.
Scream
è, ovviamente, un tentativo di continuare a fare cassa prima che il buon vecchio Ozzy non si regga più in piedi. D'altronde, devono aver pensato alla casa discografica, anche Dio che pareva stesse ancora benone alla fin fine è morto. Ecco allora un album in cui su tutto prevale la produzione: la voce è talmente filtrata, corretta, auto-tunizzata ed effettata che potrebbe trattarsi di un qualsiasi imitatore (anche scarso); la chitarra (non più affidata al potentissimo Zakk Wylde) suona come una collezione di clichè dell'heavy metal; il livello medio di scrittura dei brani è decisamente mediocre. Eppure... per qualche ragione quest'album, laddove si abbia la ventura di giungere al terzo ascolto, ti entra nel cervello e vi si stabilisce comodamente, nel settore "dischi che mi stanno simpatici". Sarà che è un ottimo disco pop, prodotto come un disco pop da gente che evidentemente ci sa fare.

Gli Apocalyptica sono in giro da almeno 15 anni (il primo album è dell'ormai lontanissimo 1996) ma continuano ad aggregare consensi. D'altronde il meccanismo è semplice: per ogni metal kid deve arrivare prima o poi la fase in cui ci si rende conto che il metal discende dalla musica classica (anche se le cose non stanno proprio così, ma prima o poi lo si pensa), e quindi quando si scopre che qualcuno fa metal con i violoncelli, la curiosità si accende facilmente.
Per me che li seguo ormai da molti anni, i veri Apocalyptica sono quelli di Cult: musica strumentale originale, violoncelli usati sia come tali che come chitarre elettriche, batteria qua e là (soprattutto quando c'è un tale Dave Lombardo alle pelli, si ascolti questo pezzo su tutti), qualche cover giusto per gradire (parliamo di una band che ha esordito con un disco di sole cover dei Metallica).
Quando fanno canzoncine pseudo-metal ad uso e consumo della MTV generation mi fanno incazzare. The 7th Symphony è un bell'album se si considerano solo i pezzi strumentali (l'opener At the Gates of Manala, la possente 2010, la classicheggiante Beautiful, la straordinaria On the Rooftop with Quasimodo e anche le conclusive Sacra e Rage of Poseidon). Le canzoni purtroppo sono molto mediocri, e in particolare una (Broken Pieces) è atroce. Consiglio molto vivamente l'edizione deluxe che contiene due ottimi brani strumentali in più e un bel DVD acustico.

Perchè Zakk Wylde non suona nell'ultimo disco di Ozzy Osbourne? Proprio il principe delle tenebre in persona ha dichiarato che non c'è alcuna ragione musicale o personale, ma semplicemente non gli andava più che i suoi dischi suonassero così tanto come quelli dei Black Label Society. E in effetti la chitarra di Mr Wylde è talmente riconoscibile che la sovrapposizione era evidente, lasciamo stare poi gli inevitabili confronti qualitativi (qualsiasi album dei BLS è superiore a qualsiasi album di Ozzy successivo a No More Tears).
Order Of The Black arriva a ben 4 anni di distanza dal precedente Shot To Hell. Mai i nostri ci avevano messo tanto tempo a dare seguito ad un disco. Le ragioni ci saranno, ma quello che posso dirvi con certezza è che la formula si è ormai usurata e che forse sarebbe ora di un cambio di direzione. Se non conoscete nulla dei BLS, quest'album andrà benissimo e vi stordirà con la mostruosa tecnica del leader e con la potenza sonora di una band eccellente. Ma in caso contrario vi domanderete, esattamente come il sottoscritto, cosa farvene di un disco che suona esattamente come una compilation di tutti gli altri.

5 settembre 2010

O.Children


Nell'acquazzone di band che seguono il filone "neo wave" (l'etichetta è orrenda ma se ne avete di migliori suggerite pure) ogni tanto mi appassiono ad un album in particolare, senza neppure sapermene spiegare le motivazioni. Era successo col primo dei White Lies, quest'anno è toccato invece a questo dischetto dalla copertina intrigante (ma se dovessi giudicare dalle copertine, prenderei abbagli catastrofici).

La formula sembra piuttosto semplice e già sentita, una solida base ritmica con giri di basso in primo piano, chitarra presente ma non necessariamente prima donna, synth che accennano brevi riff che aggiungono suggestioni orecchiabili, insomma tutte cose che riconosciamo, ma è la voce sicura del cantante Tobias, un baritono dalle vibrazioni giuste, che pone alla fine l'album una spanna sopra molti altri.

Fanno la propria parte, ovviamente, anche solidità di scrittura e attenzione maniacale negli arrangiamenti. Difficile scegliere i momenti migliori, ma vi consiglio di dare un orecchio al brano di apertura Malo o al singolo Death Disco Dancer; se vi incuriosiscono, l'album potrebbe interessarvi.