26 aprile 2011

Gorillaz: The Fall... una caduta? Ma no.

Per parlare di questo album è necessaria un po' di storia. Chi siano (e non siano) i Gorillaz è ormai arcinoto, dunque passiamo direttamente alla gestazione delle canzoni che compongono il CD.

Durante il tour dei Gorillaz dell'anno scorso, Damon Albarn ha visitato un sacco di città e soprattutto di stanze d'albergo. Pare che si annoiasse molto, per cui ha passato un po' di tempo a giocherellare col suo nuovo iPad. Che permette anche di fare musica, e quindi il buon Damon ha buttato giù idee, ritmi, spunti e così via.
Senza troppe modifiche, anzi evitandole quasi del tutto, quegli spunti sono diventati i 15 brani di The Fall. L'album è stato originariamente offerto in formato solo digitale sul sito dei Gorillaz come regalo agli iscritti al fan club. Esce ora nei negozi a prezzo contenuto, un po' in sordina visto che ormai si tratta di una cosa già datata e abbondantemente recensita. Forse solo io me ne occupo adesso, visto che ho atteso che uscisse il CD prima di ascoltarlo.

Molti l'hanno considerato niente altro che una sorta di scherzo, un gioco nato per capriccio durante il tour ma ben lontano dalla qualità delle tre uscite "regolari" che l'hanno preceduto. Certo, nel disco non ci sono pezzi forti alla Clint Eastwood, Feel Good Inc., DARE o Stylo, e non ne verranno fuori delle hit: troppo dimesso il tono, troppa poca attenzione alla commerciabilità del materiale, pochissime collaborazioni.

A me però l'album è piaciuto molto, sarà per il minimalismo, sarà per una certa malinconia di fondo, sarà anche che suona molto come un disco solista di Damon Albarn. La raccolta di canzoni gioca sull'immediatezza: si sente molto la natura "on the road", e nel mutamento costante d'ispirazione dei brani si percepisce lo sfondo cangiante sul quale sono stati concepiti. Soprattutto, emergono come fiori dal deserto certe piccole grandi idee di composizione, senza un eccesso di sovrapposizioni stratificate che avevano forse un po' debordato nel precedente Plastic Beach.

Bella dunque la semplice ma efficace intro sintetica Phoner to Arizona, splendida la successiva Revolving Doors, che ci restituisce il miglior Albarn. Hillbilly Man ci regala la chitarra di Mick Jones (una delle quattro collaborazioni presenti) su un beat electro decisamente minimale. Si va avanti per piccoli bozzetti sonori su ritmi elettronici quasi abbozzati, con le tastierine house di Detroit, i bassi cupissimi di Little Pink Plastic Bag, qualche stratificazione di synth in più sulla toccante Amarillo, il basso di Paul Simonon in Aspen Forest e il ritorno di Bobby Womack in Bobby in Phoenix.

Il facile gioco di parole sulla "caduta" del titolo (che starebbe ad indicare una decadenza dopo il periodo d'oro), abusato in molte recensioni online, non mi pare adeguato per descrivere il disco. Semmai ci vedo un riferimento all'autunno, ad un tono meno pomposo, più riflessivo e meno party-oriented. O forse (ma questo magari sta solo nella mia immaginazione di fanatico del post-punk) si tratta di un omaggio nascosto ai Fall di Mark E. Smith, che era stato anche ospite in Plastic Beach?

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