12 settembre 2011

Suck The Arctic Monkey And See

Che peccato, questo disco. Non me l'aspettavo. Eppure non stavano andando male, gli Arctic Monkeys. Fino al terzo disco li ho seguiti con interesse.

Avevano incasellato un paio di dischi di rock leggero, che si poteva magari anche tacciare di essere un po' commercialotto, ma molto energico, piacevole e dal grosso potenziale radiofonico (per inciso, il primo disco aveva battuto il precedente record di vendite di un disco d'ersordio, detenuto fino ad allora dagli Oasis). Poi un bel terzo album li aveva consacrati come band ormai matura e capace anche di prove meno adolescenziali, ben strutturate e rifinite. E cosa ti combinano? Arriva questo quarto dischetto fiacco e fuori fuoco, sin dalla copertina che non poteva essere più scialba di così.

Il lavoro è minato soprattutto da una pesante incoerenza interna, oltre che da una qualità di scrittura che in alcuni punti non conferma gli standard della band.

Niente di atroce, sia chiaro: l'album scorre via senza grossa infamia - e dopo qualche ascolto vi piazza anche in testa tre o quattro tormentoni, vedi per esempio Brick by Brick o Reckless Serenade - ma si avverte una artificiosa alternanza tra brani più poppy - come l'opener She's Thunderstorms - che ricordano i primi due album, e canzoni con arrangiamenti più psichedelici, nella scia dell'album precedente. È proprio lo stile del cantato a mutare brano per brano, con un "effetto compilation" che sgrana l'album e ne fa un'esperienza meno godibile di quanto sarebbe stato possibile.

Detto questo, l'altro problema è che ci sono troppe canzoncine vacue nel disco, che non hanno ne' il pregio di restare in testa ne' una qualsivoglia velleità di tipo artistica: stanno lì come puro riempitivo, e questo è un peccato mortale per una band che vuole aspirare a qualcosa in più che piazzare un paio di buoni singoli in classifica.

Chiuderei qui il discorso, ma mi scappa una coda analitico-polemica in tema di critica e definizioni, che chiunque non segua le mie solite farneticazioni può tranquillamente saltare.

Chi mi legge (il mio gatto e la mia ex bassista) me lo ha già visto scrivere: "Indie rock", "Alternative rock", "Brit rock"... queste etichette non sanno di nulla e non definiscono nulla, e per giunta non rendono un grande favore a band come gli Arctic Monkeys. Eppure la stampa (sia quella cartacea che il frammentatissimo universo della rete) ha fatto a gara ad inventarsi definizioni tra le più disparate e prive di senso.

Il fenomeno è diffuso e a volte ha impatti nefasti. È anche il segno di un'epoca, in cui le "rece" (parola abominevole che indica, appunto, una recensione monca) si fanno scopiazzando le pagine di Wikipedia, che sono a loro volta scopiazzate da vecchie rece.

Negli anni '00 ne ho viste tante di formazioni che sono esplose al primo album, hanno avuto cori di hosanna sperticati al secondo, e poi sono finite in una sorta di limbo, per diversi motivi ma a volte anche per l'incapacità della critica di ficcarle da qualche parte e quindi di presentarle per quello che erano: pop rock. Queste due parole messe assieme fanno orrore a tutti, ma il concetto è chiaro: "rock da classifica", roba su cui forse non bisogna nemmeno ragionare troppo, ma della quale un giornalista onesto potrebbe almeno far capire se si tratta di musica abbastanza figa, o non abbastanza, da meritare un ascolto da parte del pubblico adolescente.

Spesso queste band iniziavano con un pop-rock, appunto, chiassoso e scanzonato, con influenze brit anni '60 e molto radiofoniche, per un pubblico molto giovane. Poi molte sono cresciute e hanno cercano una propria maturazione stilistica. Al secondo o terzo album hanno iniziato a pescare consensi anche tra un pubblico più adulto, come è naturale.

Ma qui si è incasinato tutto: il blogger sedicenne si domanda "cosa fanno questi qua"? Che suono hanno? Sono cambiati? Si, un po'. Sorge spontanea la domanda successiva: chi ha prodotto l'album? Ha, il tale? Allora il genere è questo, ma con un po' di quello. La gente legge le recensioni, non ci capisce nulla e perde interesse. Come dite? Che le recensioni non le legge più nessuno? Mmmh, secondo me negli ultimi tempi invece sono ancora più importanti di una volta, soprattutto se parliamo di quelle in rete. Gli album nascono in rete, vengono downloadati, il pubblico legge i commenti su facebook...

Gli Arctic Monkeys sono un esempio tipio: iniziano la loro carriera nel 2006 con un album dal titolo chilometrico (Whatever People Say I Am, That's What I'm Not) e dal sound frenetico. Energia a mille, notti in bianco, follie adolescenziali, urgenza di esprimere qualcosa purché ci si esprima. Antagonismo a tutto e a niente, ribellione di maniera. Tutte cose già sentite, ovvio, ma dette molto bene, con coerenza ed efficacia. L'album attira attenzioni e pone la band nello status di "quelle da tenere d'occhio". Nel 2007 segue Favourite Worst Nightmare, di nuovo un bel disco, meno frenetico ma ugualmente energico, orecchiabile, suonato con vigore e un po' più smaliziato. Sempre nulla di incredibile, ma si va nella direzione giusta. La band resta sotto i riflettori ma ancora nessuno sa cosa faccia di preciso. Molti evocano a vanvera "i nuovi Oasis" (non si capisce sulla base di cosa). Il gruppo punta molto sui testi, intelligenti e vagamente inquietanti, proprio il contrario della band dei fratelli Gallagher. Passa un po', e la band chiama Josh Homme (Kyuss, Queens of the Stone Age) a produrre il terzo album. È fatta, si dicono i critici: ora possiamo parlare di "stoner rock". Peccato che Humbug non sia un disco stoner. È però molto diverso dai precedenti, anche perchè registrato negli States e, appunto, prodotto da Homme, la cui influenza bene o male si sente. Incidentalmente, è un bell'album, e potrebbe indicare la strada giusta. È il 2009 e si resta in attesa di vedere cosa succederà.

Ed eccoci qua, calendario aggiornato al 2011. Esce Suck It And See. Ohibò, difficoltà, stavolta è difficile usare la parola "brit", perchè l'album sa ancora molto di America. Ma non è stoner, no, certamente, anzi molti lo stoner lo nominano ancora ma parlano anche di psichedelia, leggo di influenze dei Queens of the Stone Age ma anche dei Beach Boys. Ma l'album è ancora più lontano del precedente da qualcosa che somigli ai Queens, anche perchè Homme non produce più. E cosa c'entrano i Beach Boys? Non si capisce. Un gran casino, insomma. La cosa peggiore è che, davvero, il disco non è un granchè, e non solo perchè lo penso io, ma per i motivi che dicevo più su. Ma molti ci girano attorno, non sanno come valutarlo. È evidente che tra chi ne scrive, la musica, ormai, la ascoltano proprio in pochi. E quelli che la ascoltano chissà cosa ci sentono.

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