10 settembre 2012

Eterni Rush

Ci sono band che si amano molto ma che non si riesce ad ascoltare in modo continuativo. per cause che non sempre risiedono solo nell'abbondanza di alternative - come nel mio caso di ascoltatore onnivoro - ma anche nella saturazione o, più semplicemente, nella necessità di far aderire le proprie preferenze a fasi della vita, a periodi interiori, ad atmosfere che vanno e vengono.

Nella mia vita i Rush sono stati l'incarnazione esatta di questa tipologia, per il loro carattere così particolare, così riconoscibile e quindi anche così inadatto ad essere un abito per tutte le stagioni. Li ho ascoltati dunque a sprazzi, negli ultimi vent'anni, alternando periodi di semi-fanatismo ossessivo a fasi di oblio quasi totale.

Perchè questa premessa? Per ribadire, prima di sviscerare questa ultima fatica della band canadese - diciannovesimo album in studio, ventesimo se si vuole contare anche l'EP di cover del 2004 - che i Rush sono irrimediabilmente i Rush, che alcune loro caratteristiche non sono mutabili nel tempo, che ogni loro album è una festa per le orecchie di un qualsiasi musicista attento ai dettagli ed all'intelligenza, e che quindi a) il mio giudizio dipende dalla mia atmosfera attuale b) quanto segue è solo una disanima su una ennesima modulazione della medesima portante.

I rush sono stati un gruppo fecondo, come testimonia il già citato numero di album all'attivo, che ha distribuito le proprie uscite al ritmo di circa una all'anno nei primi dieci anni di storia (1974-1984, quando un disco all'anno era obbligatorio per tutti), poi ancora 6 nei 10 anni seguenti (1985-1996), salvo poi diradare le uscite ad appena 3 nei 16 anni successivi: il discusso Vapor Trails del 2002 (un album masterizzato a volumi insani, e forse il più lontano dal tipico suono Rush); l'altalenante Snakes & Arrows del 2007, e infine questo Clockwork Angels fresco fresco di 2012. Uscite centellinate a ritmo di lustri, che hanno generato aspettative forse fuori luogo, ma prevedibili per una band così amata da un vasto zoccolo duro di fan intransigenti.

Per quest'ultima ragione non mi sorprese l'entusiasmo generato, circa un anno fa, dall'anteprima dei primi due brani in scaletta: sono due composizioni di purissima scuola Lee-Lifeson-Peart, progressive e ariose, caratterizzate da groove intricati, progressioni ben studiate, sonorità potenti ma ben dosate, e dalla scelta, gradita a molti appassionati, di non usare tastiere e di tornare ad una assoluta predominanza dell'elettrica contro l'uso estensivo dell'acustica del lavoro precedente. Il disco però non mantiene al 100% quanto promesso da quelle due anteprime. Ci sono altre canzoni nella stessa vena, ma anche una certa abbondanza di pezzi dalle sonorità più radiofoniche e - mi si perdoni l'accostamento - molto più AOR che prog. Non che questa sia una novità, ma per i gusti personali di chi scrive si tratta di cadute nella noia più totale, nelle quali il timbro vocale di Geddy Lee non fa che peggiorare la situazione.

Ciò detto, si tratta ugualmente di un album superlativo, soprattutto per un terzetto di sessantenni. Questi tre signori suonano come se avessero ancora trent'anni, con uno spirito, un'energia ed una voglia di stupire (innanzi tutto se' stessi) che sembra sinceramente incredibile. Ecco, questa loro positività, è questo che a sprazzi mi impedisce di ascoltarli a ritmo continuo. Non c'è nulla che mi imbarazzi come la positività. Ciò detto, eterna vita ai Rush.

Nessun commento: