26 settembre 2009

Long Live Père Ubu!

Long Live Père Ubu! Questo titolo, che sembra frutto di una puerile auto esaltazione, si giustifica col fatto che il nuovo album della band di David Thomas (oggi unico superstite della formazione che nel 1978 diede alle stampe il capolavoro The Modern Dance) è dedicato proprio a papà Ubu, il protagonista dell'opera teatrale Ubu Roi di Alfred Jerry, alla quale deve il nome la leggendaria formazione americana.

Nel 2008, dopo una carriera trentennale, i Pere Ubu hanno messo in piedi uno spettacolo liberamente tratto dalla pièce teatrale, reinterpretando in musica, a modo loro, la storia dell'Ubu Roi. Un adattamento che è poi finito, dopo opportune riduzioni nella durata dei brani, su questo nuovo CD.

Scrivo queste righe dopo aver già letto diverse recensioni, tutte mediamente negative. Si parla di un disco noioso, di una evidente derivazione teatrale (e in parte è vero) che ingabbierebbe troppo il materiale proposto, di una composizione un po' scolastica e di una formula stanca. E così via. Non sono d'accordo su nulla.

Devo confessare, è vero, spesso mi piace "fare il fan": anche di fronte a qualche scivolone, preferisco difendere a spada tratta i musicisti che amo. Lo faccio perchè penso che l'artista non debba dimostrare nulla a nessuno, che debba essere libero. E anche perchè mi piace pensare che i critici, in generale, siano musicisti frustrati che parlano quasi sempre per invidia (toh, ora che ci penso, mi pare che questo concetto sia stato sviscerato proprio da Thomas in qualche intervista, un genere che tra l'altro detesta).

Ma in questo caso voglio soprattutto difendere un album che mi è sinceramente piaciuto e i cui meriti vado ad elencare.

1. Se c'è una band che è stata accusata di tutto e del contrario di tutto, questi sono gli Ubu. Dopo i primi due album, universalmente osannati, si iniziò già al terzo e quarto ad accusarli di eccessiva sperimentazione e di cerebralismo. Salvo poi passare ad accusarli di banalità e comercializzazione quando tornarono con una formula meno ostica. Per poi finire ad accusarli di rifare se' stessi e di aver perso la bussola quando ripiegarono su album più complessi e coraggiosi (vedi ad esempio l'ottimo Pennsylvania). Nei confronti del penultimo Why I Hate Women si è giunti ad affermare che cercavano di suonare come una band alternativa. Che è come accusare il papa di cercare di suonare cattolico.

La verità è che i Pere Ubu fanno un po' come gli pare, e questo album non fa eccezione.

2. Cimentarsi con un'opera di riferimento ha costretto la band a sperimentare soluzioni mai adottate prima: strutture basate sulla ripetizione, cori, duetti (punto su cui tornerò), rimandi sonori e tematici tra un brano e l'altro. Trovo questa ricerca affascinante e meritevole di attenzione, quando fatta con originalità - e quest'ultima qui di certo non manca.

3. In questo disco emergono elementi prog rock rimestati in salsa Ubu che non immaginavo avrei mai sentito. Una sorpresa che, per quanto sia paradossale parlando di prog, dona a quest'album una freschezza inaspettata.

4. Secondo paradosso: questo è un disco quasi orecchiabile. Alcune soluzioni melodiche si stampano facilmente in testa, nonostante gli arrangiamenti non sempre improntati ad una facilità di fruizione. Ascoltare per credere.

5. Il personaggio di Mere Ubu è interpretato da Sarah Jane Morris. Cioè, avete presente? Quella che duettava con Jimmy Sommerville in Don't Leave Me This Way. Quella che in genere, come ci ricorda Wikipedia, si cimenta in Jazz e R&B. Ascoltarla interpretare questo materiale - assieme al gutturale e cacofonico Thomas - è una vera gioia per le orecchie.

Nessun commento: