20 gennaio 2011

White Lies alla prova

I White Lies sono un oggetto strano nella lunga serie di band che la critica ha frettolosamente etichettato come eredi della new wave britannica dei primi anni '80.

(Mi si consenta uno sfogo tra parentesi: ma è possibile che una intera genìa di cosiddetti critici non sia stata capace di far altro che nominare i Joy Division come comuni ispiratori di una generazione di musicisti che hanno spesso ben poco a che fare tra loro? E ancora: ma può mai essere che nessuno si ricordi che "new wave" non è un genere musicale, ma una etichetta che indica un fenomeno culturale ed un periodo storico, contrassegnato da stilemi talmente diversi tra loro da contenere di tutto, dai Bauhaus ai Soft Cell? E mi fermo solo per non perdere il filo.)

Esplosi due anni fa in seguito ad un primo album ottimamente confezionato ma facile oggetto di critiche, i tre di Londra erano attesi al varco della seconda opera con un certo scetticismo.

Lo stile di To Lose My Life... - che usciva esattamente due anni fa - non è facile da definire se lo si compara con gli album di band che possono contare su un pubblico simile. La voce di Wikipedia lo paragona a Joy Division, Interpol, Editors, ma anche ad Arcade Fire e Killers, richiamando inoltre Echo & the Bunnymen, Tears for Fears e Teardrop Explodes. Quello che mi pare non si colga da questi accostamenti è il forte elemento epico dei brani dei White Lies, i quali fanno del ritornello antemico un marchio di fabbrica decisivo. Mi vengono in mente forse dei New Model Army molto più pop ma anche più tenebrosi.

Quello che lasciava un po' l'amaro in bocca in quel primo album, che invece ha dei gran punti di interesse, era la scarsa fantasia melodica che fa assomigliare troppo i brani uno all'altro. Il timbro di Harry McVeigh è corposo e profondo ma finisce con l'aggiungere monotonìa ad un album già eccessivamente piatto per scelte stilistiche.

Mi è parso dunque naturale che la band tentasse, con il nuovo Ritual, di rimescolare un po' le carte e puntare su una maggiore diversificazione. La produzione è stata affidata per l'occasione ad Alan Moulder (uno che vanta lavori con Depeche Mode, Erasure, Gary Numan, Jesus and Mary Chain, My Bloody Valentine, Killers, Nine Inch Nails, A Perfect Circle, The Smashing Pumpkins, Puscifer, e una lunga serie di altri nomi di tutto rispetto), con la chiara intenzione di aggiungere qualche elemento che potesse far fare al gruppo il classico salto di qualità.

L'operazione ha funzionato a tratti. Se ad esempio la prima traccia Is Love sposta l'ambiente sonoro su una maggiore presenza dell'elettronica, nulla è stato fatto per lo stile di scrittura della band, che si esprime al meglio solo negli episodi più accattivanti, vedi il riuscito singolo Bigger Than Us. Anzi, il tentativo sembra aver affaticato un po' il disco, con scelte che, vedi proprio il primo brano, suonano un po' forzate. A questo punto, preferivo lo stile coerente del primo album.

Una seconda prova che conferma le potenzialità di una band più che decorosa, ma che non riesce a spiccare il volo. Restando sempre migliore, per le mie orecchie, di cose come Interpol ed Editors, che proprio non riesco a mandar giù.

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