24 giugno 2012

La nuova scelta dei Cult

Non sono mai stato un grandissimo fan della band di Ian Astbury e Billy Duffy. L'immagine, un po' sopra le righe, da rockettari ubriaconi e sfascia-hotel, e la svolta hard rock di metà anni '80, me ne avevano alienato le simpatie già all'epoca, preso da band dallo stile più duro e puro, e ne avevo pertanto perso le tracce rapidamente.

Ne ho soltanto dopo riscoperto gli inizi come Southern Death Cult prima, Death Cult poi, e i primissimi album a nome Cult (Dreamtime e Love), dei quali ho apprezzato in retrospettiva non solo le radici goth ma anche una certa freschezza compositiva, nonostante le evidenti radici nel rock-blues e qualche eccesso lirico da Doors "de' noantri".

A quel punto mi sono messo a scavare nella loro discografia e, come spesso mi capita, mi sono affezionato anche ai dischi peggiori. Che poi a mio modo di vedere, nel caso dei Cult, sono anche quelli più noti e che hanno venduto maggiormente: Electric e Sonic Temple, due monoliti prodotti (benissimo) da due nomi "sicuri" come Rick Rubin e Bob Rock, perfetti in ogni dettaglio, privi di sbavature, radiofonici e da stadio quel tanto che bastava insomma a rendermili poco digeribili.

Meglio la discografia successiva, che con tutti i suoi difetti gode se non altro del fascino maledetto del mancato successo: una serie di passi falsi da Ceremony (un album ispirato dai nativi americani e sommerso dall'ondata grunge che lo rese obsoleto già all'uscita), a The Cult (che come spesso capita agli album omonimi non era rappresentativo di alcuna delle anime del gruppo, e non convinse ne' i fan della prima ora ne' quelli della seconda), a - dopo 7 anni di stasi - Beyond Good And Evil, un disco iper-prodotto dal  ritrovato Bob Rock, impegnato a comprimere ogni singola nota delle tracce fino a farle praticamente esplodere dai diffusori.

Il successivo Born Into This, ancora 6 anni dopo, pur se presentato come il grande ritorno dei Cult, mi era sembrato invece una sorta di azzeramento, un tentativo di ripartire da capo senza star troppo a pensare a cosa si aspettasse il pubblico. Perchè era forse questo il peccato maggiore dei Cult da metà anni '80 in poi: come spesso accade alle band baciate da un successo insperato, si erano infilati in un pericoloso tunnel di lavori che, nel tentativo di occhieggiare al mercato, finivano per alienarsi le simpatie di tutti.

Dopo altri 5 anni ed un periodo in cui la band aveva annunciato di voler rinunciare al formato album, e di volersi concentrare sulla pubblicazione di singoli brani in formato digitale, esce ora questo Choice of Weapon, evidentemente un ulteriore ripensamento della propria strategia commerciale, visto che si tratta di un album dalla durata standard e presentato nel formato CD tradizionale oltre a quello digitale.

Pur non facendo gridare al capolavoro, il disco è una buona prova e alterna reminiscenze del periodo "goth" ad un hard rock più convenzionale, con un livello qualitativo generale più che buono, superiore certamente alll'album precedente. La band continua a non convincermi a livello di personalità, ma musicalmente si tratta di un buon lavoro che piacerà certamente ai vecchi fan e non deluderà l'ascoltatore occasionale in cerca di qualcosa che si situi tra il rock alternativo pàù intransigente ed un ascolto leggero di stampo più radiofonico.

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