22 ottobre 2009

Living Colour in the doorway

Questo blog è nato un po' di tempo fa proprio con un post sui Living Colour. In quell'occasione ero reduce da un loro bel concerto al MusicDrome di Milano, e recensivo la serata in termini decisamente positivi. E' pertanto con una punta di dispiacere che mi accingo a parlare del nuovo disco della band, una uscita deludente che proprio non mi aspettavo.

Velocissima storia: i Living Colour nascono negli anni '80, proponendo una miscela di hard rock e funk che dà uno scossone ai cliché del rock di marca statunitense dell'epoca.
Incorporano di tutto, dal metal all'hip hop, discostandosi però da altre band che fanno del crossover la propria bandiera, sia per l'approccio politicizzato dei testi (influenzato anche dal fatto di essere una all-black band), che per i toni nonostante tutto leggeri che riescono a dare alla propria musica: una colorata sarabanda che, al suo meglio, sforna capolavori da college radio come Funny Vibes, Cult of Personality, Type e via citando.

Dopo i primi due fortunati album (Time's Up, 1988, e Vivid, 1990) e l'EP Biscuits, nel 1993 giunge il primo scossone: Stain è un album molto più concentrato sul metal vero e proprio, appesantito nella formula e che non piace quasi a nessuno, fatti salvi i meriti musicali indiscutibili del chitarrista Vernon Reid e del cantante Corey Glover. Qui la band si arena e giunge lo scioglimento.

Ok, avevo detto storia "velocissima", mi sono dilungato un tantino. Ma la cronologia ci aiuta e salta a piè pari al 2003, quando i Living Colour si ripresentano con il nuovo album Collideoscope. Si tratta di un buon lavoro, non eccellente ma ricco di spunti, con alcuni ottimi brani e momenti che fanno rivivere lo spirito dei primi dischi.

Giunge adesso, dopo altri sei anni che hanno visto soltanto la pubblicazione di un paio di buoni live, The Chair In The Doorway, il quinto album di studio. E per la prima volta non mi spiego proprio cosa avessero in mente i Living Colour quando hanno assemblato questo disco. Lo stile si è appiattito sull'hard rock più tradizionale, per giunta con un trattamento sonoro da band indie che non rende giustizia alla perizia tecnica del quartetto. Gli undici brani scorrono via anonimi, senza infamia e senza lode, tanto che non ho neppure voglia di andarmi a cercare i titoli per trascriverne qualcuno. Trentacinque minuti di compitino svogliato, senza guizzi e senza nulla che lasci traccia nella memoria. La ghost track aggiunge solo una manciata di minuti e si sarebbe potuta anche evitare, considerato che si tratta del brano più debole del lotto.
Mah.

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