1 dicembre 2008

Grandi ritorni: grandi dischi?

Il rock è morto. Questo ormai lo sappiamo e dobbiamo farcene una ragione: non si può credere a Babbo Natale per tutta la vita.

Viva il rock? Certo, se ciò significa continuare a goderselo e a festeggiare i buoni album, senza per forza aspettarsi novità rivelatrici o sconvolgimenti tellurici.

Ben vengano dunque anche i "grandi ritorni", le band che, date ormai per bollite o sparite da diversi anni, piombano a piedi uniti sul mercato con una nuova fatica, sospinte dal vento in poppa del battage pubblicitario, che non manca di promettere faville. Purchè, naturalmente, gli album in questione meritino non dico tanto strombazzamento, ma almeno una manciata di ascolti soddisfacenti.

Andiamo allora a fare un po' le pulci a 4 "grandi ritorni" che hanno caratterizzato l'autunno del 2008.
Un poker d'assi calato da 4 band che hanno venduto milioni di album: AC/DC, Queen (con Paul Rodgers), Metallica e, nientemeno, Guns N' Roses.

AC/DC: Black Ice

L'ultimo disco di studio della band dei fratelli Young era stato Stiff Upper Lip, nel 2000. Otto anni di attesa consentono dunque di parlare di "ritorno", anche in considerazione dell'età media del quintetto australiano. Ma soprattutto è stato il lancio mediatico che ha presentato Black Ice come un ritorno ai fasti di Back In Black (sarà semplicemente il "Black" nel titolo?), creando un fenomeno di osanna generalizzato.

A me quest'album non è parso brutto, ma non capisco perchè dovrebbe essere considerato tanto migliore di Stiff Upper Lip. Sono 15 canzoni del solito hard rock molto tinto di blues, con Brian Johnson in discreta forma, con riff che sembrano tutti già sentiti ma proprio per questo "prendono"; il problema è che i pezzi sono tutti talmente simili tra loro da non consentirmi di arrivare a metà disco senza avere la tentazione di spegnere.

Intendiamoci: ogni canzone, presa da sola, ha i suoi pregi - anzi, si potrebbe sancirne l'assoluta perfezione. Ma sono 15 mid-tempo una dietro l'altra, tutte con gli stessi elementi, senza una sbavatura nella produzione, senza un guizzo, senza nulla che non sia "la band che suona esattamente come dovrebbero suonare gli AC/DC". Non reggo. Una sufficienza meritata, ma nulla di più.

Queen + Paul Rodgers: The Cosmos Rocks

Qui si entra in territori delicati e pericolosi. Freddie Mercury, è inutile ricordarlo, non è più tra noi dal lontanissimo 1991. E' da allora che - tolto un album di brani completati dal gruppo utilizzando le ultime registrazioni lasciate dal cantante, non esce nulla a nome Queen. Giustamente, viene da dire.

Ora, si sa, abbandonare un nome così prezioso in termini di vendite è una cosa difficile. Comprensibile che Brian May, piuttosto che fondare la "Brian May rock band", abbia preferito ad un certo punto dare in pasto al pubblico un CD con le magiche 5 lettere stampate in bella vista.

Naturalmente, nessuno pensa che questi siano davvero i Queen. A ricordarcelo, caso mai non avessimo capito, l'aggiunta "+ Paul Rodgers"campeggia in caratteri più piccini sulla copertina. E l'accostamento tra gli ex-Queen e l'ex cantante dei Free e dei Bad Company poteva anche risultare interessante. Purtroppo, in realtà, ne è risultato un pasticcio in cui è proprio difficile salvare qualcosa.

Testi giovanilistici indifendibili (si parla di scuola come se non si avessero 60 anni), un gravissimo scollamento dalla realtà , scelte musicali indecise tra il vecchio suono della regina e le tendenze rock-blues più tradizionali di Rodgers. Anche il titolo, The Cosmos Rocks, non sta in piedi (che vuol dire? di cosa state parlando, percaritàdiddio?) . Un disco patetico e decisamente evitabile.

Metallica: Death Magnetic

Immaginiamo che una band fondi, negli anni '80, un genere che resterà una pietra milaire nella storia del metal. Facciamo finta che questa band inanelli 4 album venerati dal pubblico, che li conducono allo status eroico di paladini dell'heavy (anzi, del thrash, se ipoteticamente questo fosse il nome del nuovo genere).

Supponiamo che però al quinto album questi quattro loschi figuri (cavalieri delle tenebre, potremmo definirli) decidano di cambiare registro, indovinando un disco dal successo pauroso ma che fa storcere il naso a molti dei fan adoranti di cui sopra. E lanciamoci a briglia sciolta nell'ipotizzare che, a peggiorare le cose, arrivino prima una coppia di album hard-blues rock che non piacciono quasi a nessuno, fino a quando i nostri eroi, in un impeto di auto-lesionismo, partoriscono un ultimo letale disco che fa schifo a tutti, ma proprio a tutti.

Ecco, narrata questa stupida boiata, e chiarito che si parla dei Metallica, immaginiamo infine che questo gruppo, scaricato il bassista ormai transfugo nei Voivod (plauso a lui) e cambiato produttore (aver prodotto Load + Reload + St.Anger non è stato considerato un buon curriculum per il vecchio Bob Rock), decida di tornare sui propri passi e di comporre un album che, per sonorità e stile, sarebbe potuto arrivare dopo il quarto, cancellando tutto quanto c'è stato in mezzo. Et voilà, ecco a voi Death Magnetic. Torna il vecchio logo, tornano i riff thrash, tornano i Metallica.

Ma sarà vero? Dopo tanti tentativi di cambiamento, è proprio difficile credere alla sincerità di questo ritorno alle origini. Ma facciamo finta (tanto ormai ci siamo abituati) che sia così. Che Hammett & soci sentissero proprio il bisogno di farlo. Insomma, non facciamo i sospettosi. Resta il fatto che questo disco convince per metà: in diversi momenti i nostri suonano quasi come se' stessi, ma i brani sono troppo lunghi, il disco dura un'eternità e mezza, le idee sono troppo diluite, la voce di Hatfield non sempre si ri-adatta a fare "se' stessa giovane", i suoni della batteria non hanno ancora dimenticato di essere passati per il purgatorio dell'album precedente.

Una mezza botta. Sei meno meno? Ma si, nonostante la perversa idea di inserire l'inutilissima Unforgiven III. Però, ammettiamolo: i primi due minuti del disco sono un tuffo al cuore. Ascoltatevi almeno quelli.

Guns N' Roses: Chinese Democracy

La storia di quest'album è una delle più assurde nella storia del rock. Atteso dai fan dei Guns N' Roses dal 1993 (anno di pubblicazione dell'ultimo disco del gruppo, la raccolta di cover The Spaghetti Incident?), e più volte annunciato come imminente, Chinese Democracy era ormai diventato un oggetto leggendario e quasi una barzelletta: il sospetto che non sarebbe mai uscito era ormai molto diffuso.

E invece eccolo qua: esisteva davvero, anzi, ormai esiste, ed è uscito da pochi giorni. Naturalmente, come tutti sanno, il nome Guns N' Roses sta a significare il solo Axl Rose: niente Slash, niente Izzy, niente Duff, sostituiti negli anni da una varietà di musicisti dei quali si è oramai perso il conto. Pare incredibile dunque che l'album, a dispetto anche delle innumerevoli sessioni di registrazione in 14 studi diversi, suoni decisamente compatto, molto potente e - udite udite - anche piuttosto convincente. E ci tengo a sottolineare che chi scrive può essere considerato tutto meno che un fan di Axl Rose, la cui voce starnazzante non è in effetti il punto forte dell'album.

Ciò che funziona, semplicemente, sono i pezzi: rock ruffianissimo, metal ballads - in mezzo c'è anche qualche pezzo che davvero ricorda i vecchi Guns - arrangiati in modo sorprendentemente moderno ma soprattutto dotati di buoni riff, ritornelli azzeccati, grinta quanto basta, una certa dose di rabbia, spruzzate di romanticismo, soli degni di nota (certo, facile se li si fa registrare a un certo Buckethead). Se questo blog avesse le stelline, sarebbe almeno un 7 su 10. Non posso crederci.

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