14 marzo 2013

E allora parliamo di The Next Day

Se ne è parlato e se ne parlerà talmente tanto che non mi era parso il caso di buttare giù le mie impressioni dopo il primo ascolto. Adesso, dopo qualche giorno e un po' di giri nel lettore, mi pare di avere qualcosa in più da dire. Mi perdonerete dunque se aggiungo la mia voce a quella dei migliaia di recensori del nuovo album di Bowie.

The Next Day ha avuto ottima stampa, con critiche generalmente positive se non entiusiastiche, ed è il primo disco di Bowie a raggiungere alte posizioni in classifica da vent'anni a questa parte (per quanto i numeri assoluti delle vendite siano ormai decisamente bassi e tendano dunque a premiare i ritorni delle "vecchie glorie" che si avvantaggiano di un pubblico più attempato, più affezionato ai formati "fisici" come vinile e CD, e forse anche meno incline allo scaricamento selvaggio).

L'album è certamente bello, e la media pesata delle valutazioni che ho visto in giro potrebbe far supporre sia eccellente. Per quanto riguarda l'aspetto esecutivo e gli arrangiamenti, c'è poco da dire: siamo di fronte ad un'opera di altissima caratura. Bowie si avvale come al solito di musicisti d'eccezione (tra cui spiccano David Torn, Gail Ann Dorsey, Gerry Leonard, Tony Levin) e del vecchio compare Tony Visconti, che ha garantito una produzione molto accurata e soprattutto nel rispetto di una tradizione consolidata e riconoscibile.

Soprattutto sono colpito però dall'ottimo livello dei testi, che mi sembrano il vero "ritorno al passato" - un concetto sul quale si è giocato con la copertina e con la scelta del primo singolo, con tanto di richiami decadenti alla Berlino che fu. In quest'album Bowie gioca con temi complessi, dosando il mestiere con una certa dose di sincero bisogno espressivo. Qua e là tocca una profondità raramente avvertita negli album successivi alla famosa trilogia berlinese, e la totale assenza di cover fa sì che per la prima volta da moltissimo tempo Bowie si sia davvero concentrare sulle liriche (14 testi nuovi in un solo album è il record del Duca nella sua intera carriera).

E fin qui, tutto bene. L'unica cosa su cui mi trovo un po' in difficoltà è l'aspetto strettamente musicale, e nello specifico la presenza di alcuni brani che per eccesso di leggerezza trascinano verso il basso il mio giudizio complessivo. Una questione di coerenza interna più che di qualità dei singoli brani, ci tengo a sottolinearlo perchè è davvero difficile trovare qualcosa di mal fatto in questo disco. Ma è come se Bowie avesse voluto ficcarci un po' troppo, troppe vecchie incarnazioni che riaffiorano, e se la cifra del disco è un rock maturo venato di inquietudini, allora alcune canzoni ci stanno un po' strette. Un peccato, perchè fino alla quinta traccia inclusa l'album scorre via perfettamente, salvo poi incappare nell'attacco di Valentine's Day, che mi fa domandare se per caso non sono cascato in un altro disco per errore.

Comunque, se volete una valutazione sintetica, si tratta di una prova diverse spanne sopra album come Heathen e Reality, vicino forse a Scary Monsters più che ad ogni altro album precedente, ma con puntatine che strizzano l'occhio a diverse fasi della carriera di Mr Bowie.


E allora, anche se lo faccio di rado (ma questo è il classico caso per cui fare eccezione), eccovi di seguito due-righe-due su ogni canzone.

The Next Day - L'apertura rock con chitarre in evidenza e groove tirato. Il testo parla di un "antico tiranno assassinato dalla folla" (dichiarazione di Visconti) ma ha richiami più complessi e pare parlare di mille altre cose. Contiene numerosi rimandi al passato: chitarre alla Heroes, un'isteria alla Diamond Dogs... e richiami di melodie che vi lascio ricercare.

Dirty Boys - Dal rock alla scuola d'arte, con spruzzate funky. Un ritornello che sembra preso da un'altra canzone, frammenti no-wave, un pastiche che sta miracolosamente insieme e forse uno dei momenti più riusciti del disco.

The Stars (Are Out Tonight) - Il singolo che gioca con il concetto di fama (ancora) e di paranoia (ancora). La voce drammatica e appassionata è quella di sempre, gli archi di Visconti anche, una goduria.

Love Is Lost - Un grandissimo brano, il mio preferito, con un testo inquietante e dalle infinite possibili interpretazioni, per quanto apparentemente semplice ("you've cut out your soul and the face of thought"). La musica cresce all'infinito senza risoluzione, una prova in quartetto (Bowie, Leonard, Ann Dorsey e Alford) che vorrei proprio ascoltare dal vivo.

Where Are We Now? - Il singolo che tutti abbiamo accolto come il melanconico canto di Bowie al proprio passato, presagendo un album riflessivo e compassato (quale migliore inganno?). Spezza il ritmo di un album serrato e lo fa nel momento giusto. Splendida, ad ogni ascolto si apprezza di più.

Valentine's Day - Il primo brano con ritornello gaio e coretti sguaiati, che si possono apprezzare o meno. Ma comunque, un esempio d'altissima scuola di pop sixties, potrebbe venire diritta diritta da Absolute Beginners. Il testo, ancora una volta, parla di qualcosa di diverso da ciò che appare.

If You Can See Me - Ancora pop ma di tutt'altro genere: qui ci si sposta su territori tra 1.Outside (per la voce e l'atmosfera) ed Earthling (per il ritmo quasi jungle). Un concentrato di paranoia ma l'arrangiamento non traborda mai nell'eccesso, un senso della misura che è caratteristico di tutta l'opera.

I'd Rather Be High - Un brano di impossibile classificazione, anche se si sentono richiami al pop psichedelico d'altri tempi. Il ritornello fa presa subito, il testo gioca tra le memorie di un veterano e le inquietudini del genere umano in generale.

Boss of Me - Un mid-tempo con fiati, un testo d'amore (Who'd have ever dreamed / That a small town girl like you / Would be the boss of me), ingredienti che in mano a Bowie ed alla sua voce diventano una canzone fuori dal tempo.

Dancing Out in Space - Un campo da gioco per Leonard e Torn, che stratificano le loro chitarre su un tempo ballabile e schizoide, con un testo "spaziale" e un pizzico di ironia. Tra i brani di cui potevo fare a meno, sempre con rispetto parlando.

How Does the Grass Grow? - Con un testo ispirato ad una sorta di cantilena recitata dai soldati della seconda guerra mondiale mentre si esercitavano infilzando pupazzi con le baionette, un altro brano con molti elementi musicali differenti mescolati in modo quasi impossibile.

(You Will) Set the World On Fire - Riff di chitarra in primo piano, ritmica accattivante, ritornello che in altri tempi avrebbe fatto sfracelli, arrangiamento di archi alla T.Rex, l'ultimo assalto adrenalinico dell'album. Forse la migliore tra le canzoni più pop del disco.

You Feel So Lonely You Could Die - Se qualcuno pensava che Bowie non avesse più la magia di canzoni come Wild is the Wind, eccolo servito. Quello che Bring Me The Disco King prometteva, questo pezzo lo mantiene dalla prima all'utima nota.

Heat - Il brano precedente avrebbe potuto essere un degno finale, ma questo lo supera e aggiunge pathos a pathos, tristezza a stratificazioni di tristezza, e gioca ancora una volta tra il Bowie persona e i cento Bowie personaggi della commedia dell'Arte. "And I tell myself I don’t who I am", cantano tutti assieme Ziggy, Aladdin Sane, il Duca Bianco e tutti gli altri, con una chitarra acustica e un muro di rumorismi sullo sfondo. Magistrale.

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