15 marzo 2013

Lady From Shanghai, i Pere Ubu alla riscossa?

Lady From Shangai è il quindicesimo disco di studio dei Pere Ubu, l'ultimo arrivato in una sequenza di opere che sono state spesso disturbanti, a volte caotiche, regolarmente contestate, e sempre contraddistinte dalla caratteristica irrequietezza che ha costretto la band di David Thomas a non ripetersi mai, neppure nella formazione, che infatti muta di album in album da 35 anni.

In particolare, quattro anni sono trascorsi da Long Live Père Ubu, disco atipico che nasceva da uno spettacolo teatrale e rimane incollocabile (anche per la presenza della voce di Sarah Jane Morris), e sei dal precedente canonico album di studio Why I Hate Women, un disco non perfetto ma come sempre discusso secondo quello che a mio modo di vedere è un equivoco e anche un paradosso.

Ossia, l'eterno confronto dell'opera di una band col suo primo album o più in generale con il suo primo periodo. Che è sempre, per definizione, il migliore. Il che è spesso anche sacrosantemente vero. Ma se c'è una band che va valutata in modo atemporale, liberandosi dalla storia delle uscite, quella band sono i Pere Ubu. Il cui secondo album era già talmente diverso dal primo che avrebbe potuto essere stato prodotto 30 anni dopo, o anche 30 anni prima.

The Modern Dance fu d'altronde incredibilmente innovativo e "alieno", e in qualche modo lo resta tuttora, tanto che la stessa band non ha mai tentato di riprodurlo in alcun modo. In questo senso, e ribaltando il discorso appena fatto (adoro contraddirmi), Lady From Shangai mi incuriosiva molto proprio perchè annunciato come "l'album dance dei Pere Ubu". Uno statement che ovviamente era il solito scherzo di David Thomas e non andava preso alla lettera, ma nella parola "dance" non potevo non sentire un richiamo a quel primo disco. All'ascolto, non c'è invece alcun rimando evidente, se non quella confusione rumorista che è anche marchio di fabbrica, e l'abbondanza di ritmi che si potrebbero in qualche modo definire "ballabili", se per ballabile si intende che ci si può dimenare in modo sconnesso. All'interno dell'album d'altronde campeggia la scritta "Smash the hegemony of dance. Stand still."

In questo caso abbiamo di fronte un disco nervoso, ma anche malinconico (Mandy, Musicians Are Scum), con accelerazioni e bruschi rallentamenti nei brani più rumoristici. Il collettivo di 7 elementi consente di pennellare quadri di ampio respiro, con frequenti squarci di synth o di clarinetto nel mezzo di composizioni altrimenti pesantemente basate su sequenze tribali di basso e batteria e sulla caratteristica voce di Thomas. Nel complesso però non è un capolavoro, e a tratti sembra trascinarsi senza troppo mordente. Dopo qualche ascolto ho deciso che preferivo il precedente. Ma è nel complesso un album ancora godibile, soprattutto se si evita di dannarsi per gli antichi fasti perduti. Prendetelo per quello che è: l'opera di un collettivo anarcoide che non si arrende di fronte al tempo.

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