11 marzo 2008

Bauhaus: Go Away White (is here)

Difficile, difficilissimo per me parlare di questo nuovo album dei Bauhaus.
Si tratta infatti del primo lavoro di studio, dopo un silenzio durato 25 anni, di un gruppo che ha avuto un'importanza fondamentale nella mia formazione musicale.

Ovvio dunque che vi riponessi delle forti aspettative, e che avessi anche sviluppato una sorta di barriera anti-delusione, visto e considerato che il rischio di trovarsi di fronte ad un lavoro non esaltante era piuttosto elevato.
E, lo dico subito, esaltante non mi è parso, soprattutto ai primissimi ascolti. La mia impressione è andata però via via migliorando col trascorrere dei giorni e con la permanenza del CD nel lettore.

Go Away White paga lo scotto di un disco che arriva troppo tardi, e che si affaccia nei negozi in un periodo troppo diverso da quello nel quale era stato pubblicato Burning From The Inside, l'ultimo album primo dello scioglimento (1983).

Il pericolo di innescare un tristissimo effetto revival era dietro l'angolo, e va dato adito ai Bauhaus di aver saltato questo ostacolo presentando materiale che, pur presentando un marchio di fabbrica piuttosto riconoscibile, evita di rifare il verso alla produzione storica.
Sul versante opposto però il gruppo doveva anche evitare un eccessivo scarto verso la novità, che avrebbe decisamente deluso l'aspettativa di tutti quei vecchi fans che attendevano da Go Away White delle conferme in merito a sonorità, tematiche, atmosfere.
E forse proprio questo legame residuo ha tenuto i quattro musicisti un po' troppo imbrigliati, impedendo dei guizzi davvero interessanti, come se il contrasto tra vecchio e nuovo fosse rimasto irrisolto.

I dieci brani del disco sembrano quindi, per certi versi, una versione scolorita del materiale dei primi due album della band, ripuliti però di tutto ciò che oggi sarebbe sembrato caricaturale. Via dunque molti aspetti più gotici o più isterici del sound della band. Via anche la spigolosità della sezione ritmica, che appare molto più appiattita del solito (eppure i fratelli Haskins non avevano mai deluso nei Love And Rockets). Evitato anche ogni riferimento al suono più levigato presente in Burning From The Inside (pensiamo ad esempio a She's In Parties, o a Slice Of Life), che portò allo scioglimento della band e le cui conseguenze musicali furono portate avanti dai Love And Rockets senza Murphy. Resta invece ben evidente il grandissimo lavoro di Daniel Ash alla chitarra, col suo stile personalissimo e nervoso, a lama di rasoio, che pare non aver subìto il trascorrere del tempo. La distorsione di Daniel percorre tutto l'album con vitalità e soluzioni mai sciatte, rappresentandone probabilmente il vero collante. Peter Murphy, dal canto suo, canta come sempre, con voce intatta dopo tanti anni e tradendo quà e là l'antica venerazione per il duca bianco, mai nascosta e sempre affiorata, anche nei suoi lavori solisti. Non riesce però ad infondere emozione, e sembra essere poco convinto del materiale che interpreta.

I momenti migliori sono forse Adrenalin, che non tradisce gli intenti manifestati dal titolo, Endless Summer Of The Damned, e The Dog's A Vapour, unico brano realizzato prima delle brevi sessioni dalle quali è stato partorito il disco.

Go Away White è un disco non memorabile, che sarebbe stato accolto con estremo interesse se fosse stato partorito da un gruppo esordiente, ma che non rende merito alla gloria antica della band. E' però un buon compagno di viaggio, una raccolta di canzoni mai veramente brutte, una sorta di corollario non fondamentale, ma comunque piacevole, all'opera maggiore di uno dei più grandi nomi del variegatissimo panorama del post-punk anglosassone.
Non solo: ricorda a tutti quanto certi "tentativi di imitazione" (vedi gli Interpol, ma non solo loro) siano lontani anni luce dagli originali.

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