
Uscito con un po' di ritardo rispetto alla data inizialmente prevista (che avrebbe dovuto essere il 13 settembre), il nuovo disco dei Cure (tredicesimo della carriera) non fa rimpiangere l'attesa, mostrandosi molto al di sopra delle aspettative e, pur con i limiti di cui parlerò più avanti, riportando i Cure ad un livello di forma che mancava ormai da tre lustri.
Gran parte del merito si deve probabilmente al reintegro dei ranghi dello storico membro Porl Thompson, avvenuto nell'intervallo tra il precedente The Cure ed il nuovo 4:13 Dream, ed al contemporaneo snellimento della formazione che ha perso (per motivi mai chiariti, ma pare per licenziamento in tronco) del chitarrista Perry Bamonte e del tastierista Roger O'Donnell.
A prescindere da valutazioni sul merito dei singoli componenti, passati e presenti, è evidente quanto il sound della band tragga giovamento dal cambio, arricchendosi di tonalità che erano decisamente mancate nell'appiattimento degli ultimi due album.
Ma 4:13 Dream gioca soprattutto la carta del revival, riportando gli orologi dalle parti del 1992, e pescando a man bassa dai luoghi comuni dei Cure di Disintegration e di Wish, ma anche da prima ancora se si considera ad esempio che il brano Sleep When I'm Dead pare provenga dalle session di The Head On The Door (1985). L'operazione, dal punto di vista musicale, funziona: le tredici canzoni convincono per spessore ed interpretazione, il disco scorre via che è un piacere ed offre anche una discreta variazione di stati d'animo (ricordate i selvaggi cambi d'umore del 1996?), sebbene sia stato assemblato con una maggioranza di composizioni upbeat e con diversi potenziali singoli oltre ai quattro già pubblicati.
Per contro, è proprio questo effetto deja-vu a rappresentarne la principale debolezza. I Cure oggi sono un gruppo che torna indietro e non presenta nulla di nuovo, sterzando da una strada che si stava rivelando infruttuosa ma effettuando una inversione ad U che non punta certamente verso il futuro. Sarebbe stato certamente difficile aspettarsi qualcosa di diverso dopo più di trent'anni di carriera; ma Bobby Smith non era quello che aveva dichiarato da qualche parte negli anni '80 che i "dinosauri" erano da disprezzare e che i gruppi dovrebbero sciogliersi al terzo album proprio per evitare la ripetizione? Beh, sicuramente l'età e l'esperienza hanno mutato la sua opinione.
Il set inizia con Underneath The Stars, che riparte dai campanellini che aprivano Disintegration, e riproduce

Il bilancio è di almeno quattro grandi canzoni rock e di un paio di ottimi singoli, con il restante materiale ben sopra la media: niente male, a conti fatti. Chiudo con la speranza che il fantomatico "dark album" - a quanto pare ricavabile dai brani più lenti realizzati nelle sessioni per questo disco, che avrebbero partorito circa ventisei canzoni - veda effettivamente la luce e ci offra un panorama analogo in quanto a qualità e varietà.