28 maggio 2009

Back to the Devil

Diciassette anni dopo Dehumanizer, e con un'età media sopra i 60 anni, tornano nientemeno che i Black Sabbath, sebbene il nome sulla copertina di The Devil You Know sia quello degli Heaven & Hell.
La formazione infatti è quella con Ronnie James Dio alla voce, e il nome Black Sabbath può essere utilizzato, per ragioni legali, solo dalla formazione originale con Ozzy Osbourne.

La presenza di Toni Iommi e di Dio nello stesso album fa subito parlare di storia dell'heavy metal: stiamo citando infatti due musicisti che il genere se lo sono letteralmente inventato negli anni '70, definendone i canoni e le regole, salvo poi metterlo in mano alle nuove generazioni che ne hanno sviscerato tutte le possibilità (fino, pare, ad esaurirle).

Cosa dire allora di quest'album? Innanzi tutto, che i nostri non si sono adagiati sugli allori e che ce ne hanno messo di impegno per realizzare un buon disco. Naturalmente, sarebbe stato piuttosto assurdo aspettarsi troppe novità da una band con questa storia. Quello che abbiamo qui è un Dehumanizer con sonorità più moderne, molto indirizzato verso il doom (un genere che ai Black Sabbath originali deve praticamente tutto), segnato soprattutto dalla personalità di Iommi e di Dio. Quest'ultimo in particolare fa un lavoro coi fiocchi senza mai far pensare ai suoi 67 anni. Egregio come sempre il lavoro al basso di Geezer Butler, piuttosto incolore invece la pur solida e funzionale batteria di Vinnie Appice.

Non mancano momenti all'altezza del passato: Atom & Evil è un grande pezzo d'apertura, col riff sabbathiano d'ordinanza sciorinato dal grande Iommi e la voce di Dio a ricordare subito con chi abbiamo a che fare; Bible Black potrebbe venire fuori dai migliori album di Dio; Double The Pain è il pezzo che tutti si aspettano da questa band; Follow The Tears, con tanto di organo, è l'apoteosi del mito dei Sabbath.

La grande pecca del disco è però proprio la sua esasperante lentezza: solo in un paio di brani (Eating The Cannibals, Neverwhere) si preme un po' il piede sull'acceleratore e ci si distacca da tempi piuttosto catatonici. Una scelta certamente meditata, che serve a posizionare la band nel solco dei propri stessi imitatori - non per niente il titolo ci ricorda che questo è il diavolo che conosciamo. Il risultato di questa presa di posizione è un album di buone canzoni, con riff granitici e quintalate d'esperienza, con la voce incorrotta di quello che forse è il miglior cantante metal di sempre, privo però di una sufficiente dinamica e destinato, ahimè, ad essere dimenticato piuttosto in fretta, inghiottito dalla storia troppo pesante che lo precede.

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