30 dicembre 2007

read and burn and read and burn and read and burn

E tre.
I Wire hanno fatto apparire nei negozi la terza reificazione del progetto denominato "read and burn", avviato nel 2002 con i capitoli 01 e 02 (quest'ultimo acquistabile solo dal sito della band per breve periodo, e quindi oramai molto raro).

Dando per scontato che tutte le uscite dei Wire meritano l'immediato acquisto, e ricordato ai più disattenti che stiamo parlando di uno dei gruppi più importanti del punk e della prima new wave, arrivo subito al punto: questo EP rappresenta ancora una volta una gradita sorpresa da parte dello storico quartetto londinese.

E' una sorpresa innanzi tutto dal punto di vista discografico: dopo i due ep di ritorno e l'ottimo album (Send) uscito nel 2003, era lecito aspettarsi qualcosa di diverso da un "read and burn 3".
E poi dal punto di vista musicale, in quanto i Wire, pur restando su livelli eccellenti, non proseguono la strada intrapresa con le opere subito precedenti. I quattro brani che compongono il nuovo ep, accantonando momentaneamente le distorsioni e l'elettronica più acida sfoggiate in Send, si imbarcano infatti in una sorta di gioco dei ricordi, mescolando rimandi alle diverse passate stagioni del gruppo.

Così 23 Years Too Late, posta in apertura, con un ritornello veloce ed una strofa tagliente, potrebbe essere uscita diritta diritta da Chairs Missing, se non fosse per i 10 minuti di durata e per la struttura che ricorda i Wire più recenti.
E pure Our Times potrebbe provenire dal passato più illustre della band, se non si sentisse l'influenza dei lavori solisti e paralleli di Colin Newman.
No Warning Given invece porta alla mente il periodo più elettronico e spesso (a mio modo di vedere) ingiustamente sottovalutato, quello di lavori come The Ideal Copy o A Bell is a Cup.
Desert Driving chiude creando una tensione che non sfocia mai e lasciando col desiderio di sentire altro.

More, please.

22 dicembre 2007

Gelo subsonico

Il quinto disco dei Subsonica è uscito da un po' ormai, quindi ho avuto tempo e modo di farmene un'idea. Quello che mi ha colpito, leggendo recensioni e commenti sulla stampa e in rete, è che ognuno si è fatto la sua idea personale (e questo è normale) e che queste idee sono tutte molto diverse tra loro (il che capita un po' meno spesso).
Il disco è stato sia osannato come gran ritorno alla forma, sia stroncato come ripetitivo e banale.

I Subsonica per me hanno rappresentato nei primi anni 2000 una sorta di segnale di speranza: un gruppo italiano intelligente, dotato di competenza tecnica e non solo musicale, capace di sfoggiare testi non banali e costruzioni originali (soprattutto in Microchip Emozionale, che resta ad oggi il loro lavoro più riuscito). Non sono mai stato un grandissimo fan, ma pian piano ho comunque acquistato tutti i dischi e li ho ascoltati più di una volta.
Non essendo quindi ne' un ammiratore indefesso, ne' un incallito detrattore, ma avendoli frequentati abbastanza, mi permetto di dire la mia. Per punti.

1. Questo disco non è, come molti dicono, un "ritorno" dei Subsonica alle loro sonorità abituali. Pur essendo molto più elettronico del precedente Terrestre, vira su territori tipici di metà anni '90, che i nostri finora avevano utilizzato da ispirazione ma mai rimaneggiato in modo esplicito. Vedi su tutte la prima e la quinta traccia, che ricalcano stilemi breakbeat e techno-rave che ricordano Chemical Brothers e Prodigy come mai prima d'ora. Ad un primo ascolto questi ambienti sonori mi sono sempre graditi, ma rappresentano comunque un ritorno a cose passate e non sembrano essere stati sviluppati in modo nuovo.

2. Rispetto a Terrestre, album che non è piaciuto praticamente a nessuno (forse sono uno dei pochi che lo trova interessante) ma che mostrava un'indubbia dose di coraggio, qui c'è un compitino molto ben fatto (sia chiaro: in Italia questo disco è comunque una delle migliori uscite dell'anno) ma non mi pare di cogliere spunti nuovi. Peccato, capisco però che ciò derivi dallo sbandamento di una band che ha tentato una strada e non ha avuto gli attesi riscontri da parte del pubblico (parlando di Terrestre Live uno dei membri del gruppo lo ha definito un disco "passato praticamente inosservato").

3. I testi sono spesso superiori qualitativamente alle linee melodiche che li sorreggono. Questo è un peccato. Solo negli ultimi brani, che si liberano un po' dallo schema "siamo di nuovo elettronici", si denota maggiore capacità di gestire la materia testuale senza imbrigliare il cantato in schemi rigidi. Non concordo completamente con Fabio De Luca che su Rolling Stone ha scritto "Suoni cupi, grassi e potenti [...] Giri di basso che grattugiano, arpeggi di synth da rave di prima generazione [...] Poi arriva Samuel e il nostro orecchio invece desiderebbe ancora tanti giri di basso che grattugiano e tanti synth da rave di prima generazione". Non concordo soprattutto perchè di questo tipo di musica ne abbiamo già avuta tanta e di buona qualità, non vedo dunque perchè un gruppo italiano dovrebbe cimentarsi ora con questa materia. Però capisco cosa intende e vorrei che i Subsonica uscissero da schemi compositivi che sembrano troppo preoccupati del mercato degli adolescenti e che invece ne imbrigliano le evidenti possibilità.

4. Ciò che più mi piace dell'album è il senso di gelo complessivo. Oltre alla scelta di titoli che danno immediato senso di freddezza e di assenza (La Glaciazione, L'Eclissi, Ali Scure, Veleno) c'è una tristezza diffusa che trovo molto adatta alla miserabile Italia del 2007. E di molti degli anni precedenti.

5. Un dubbio: ma i Subsonica leggono Carmilla? O semplicemente leggono attentamente le rubriche del citato Rolling Stone? O tutte e due (probabile)? Un testo (Canenero) prende ispirazione da un romanzo di Giuseppe Genna; un titolo (Alta Voracità) è stato ispirato dal collettivo Wu Ming; un altro brano (Piombo) è basato su Gomorra di Saviano. E nei ringraziamenti si citano, tra gli altri, Evangelisti e Ammaniti (ma anche Radiogladio alias Sergio Messina, un mio sempiterno mito). Bravi, magari qualche adolescente in più si dedicherà a buone letture.

28 novembre 2007

Orrore: pubblicità nei DVD


La fantastica notizia è apparsa oggi sui quotidiani online (vedi ad esempio il Corriere): un brevetto depositato da IBM consentirà di inserire pubblicità nei DVD. Detto così, sembra la scoperta dell'acqua calda: già oggi, volendo, è possibile inserire spot pubblicitari all'interno di un filmato. La novità sta nel fatto che il nuovo sistema consentirà di rendere, per così dire, obbligatoria la visione dello spot, impedendo di saltarlo o di andare avanti veloce durante la riproduzione.
Vi si sta accapponando la pelle, vero?
Il fatto che l'idea sia di proporre questi DVD "farciti" a prezzi inferiori rispetto a quelli "puliti" non mi rende meno disgustato. Io certo non comprerei una cosa simile neppure per 2 euro.

Dice l'articolo del Corriere che "l'idea è addirittura quella di rendere gradualizzabile la pubblicità all'interno del dvd. Così se acquisto un disco con più spot lo pagherò meno di uno con meno spot mentre all'aumentare della pubblicità aumenteranno anche i guadagni per il produttore del film."
Fortuna che all'IBM c'è gente che si scervella per produrre invenzioni come questa. Il futuro dell'umanità è al sicuro.

27 novembre 2007

Let's talk about Talk Talk

I Talk Talk sono stati non solo uno dei migliori gruppi pop degli anni '80, ma anche e soprattutto una band dotata di inventiva ed ampi orizzonti.
Il gruppo londinese fu protagonista di una breve ma intensa carriera, sviluppatasi, nell'arco di 10 anni, in 5 album, che spaziano dal pop adolescenziale e stravagante di The Party's Over del 1982 all'intreccio di jazz, classica e sperimentazione dell'etereo e quasi indefinibile Laughing Stock del 1991.
Rimasti famosi al grande pubblico grazie ad una manciata di ottimi singoli, tra i quali molti ricorderanno It's My Life, Such a Shame e la splendida Life's What You Make It, basata su un memorabile giro di piano, i Talk Talk sono in realtà uno dei precursori del post-rock, memorabili per l'assoluta originalità delle scelte sonore e degli arrangiamenti, spesso basati su equilibri incerti e sulla debole ma magnetica voce di Mark Hollis.
Un gruppo che meriterebbe decisamente una vera riscoperta, al di là della generica nostalgia per gli anni 80.

Scrivo queste righe perchè al momento ci sono due eventi discografici da segnalare per chi volesse approfittarne.

Il primo è l'ennesima raccolta, uscita ormai da vari mesi. Il titolo è Natural History e la proposta comprende un CD e un DVD.
Il CD contiene tutti i singoli del gruppo, sempre piacevoli da riascoltare, ma non aggiunge un granchè a quanto già noto. L'uscita però è da non perdere per il DVD accluso, che offre tutti i video girati tra l'82 e l'88. Molte le perle, tra le quali i filmati girati da Tim Pope, più noto per essere stato il regista di quasi tutti i video dei Cure. La raccolta si può trovare in giro anche a 10,90 €: una cifra spesa bene.

Il secondo evento è la riapparizione sugli scaffali di una nota catena francese (si, avete capito, quella col nome di 4 lettere) della raccolta in 2 CD Asides Besides, grazie alla quale potrete ascoltare tutte le versioni dei singoli uscite sui 12" dell'epoca: remix, versioni alternative, lati B e qualche inedito. Il prezzo dell'opera, pubblicata nel lontano 1991, è di 25 € circa, ma in questi giorni si può acquistare in offerta a 9,90 €.
Segnalo per i veri cultori che le versioni proposte sono diverse da quelle dell'analoga raccolta (in 1 solo CD) History Revisited, sempre del '91.

Dei Talk Talk potrei dire ancora molto, magari annoiandovi a morte. Conservo qualcosa per il futuro, nel frattempo, se non li conoscete, recuperate il tempo perduto.

15 novembre 2007

Finalmente Underworld

Che bello.

Ma si, un po' di gioia, ogni tanto, ce la si può anche concedere. Soprattutto quando uno dei migliori gruppi elettronici di sempre se ne esce, dopo 5 anni di silenzio, con un nuovo capolavoro.

Un disco che definire eccellente è poco, questo nuovo Oblivion With Bells.
In primis, perchè cade in un momento di stanca dell'elettronica, con poche grandi uscite che si contano sulle punte delle dita.
In secondo luogo, perchè il gruppo si lascia alle spalle lo scivolone di A Hundred Days Off, lavoro deboluccio del 2002, e ritorna ai fasti di quel Second Toughest In The Infants che nel 1996 fece gridare molti al miracolo (e ipnotizzò il sottoscritto per un anno abbondante di ascolti ripetuti).
E infine, il disco è oggettivamente bello.
Rick Smith e Karl Hyde riescono, in modo quasi miracoloso, a tornare al passato senza sembrare semplicemente nostalgici, ed a confezionare 11 brani in puro stile Underworld senza eccedere nell'auto-citazione. Certo, la copertina ricorda intenzionalmente quella del primo album (Dubnobasswithmyheadman, 1993) e l'album si apre con Crocodile, un brano dalla ritmica riconoscibilissima che fa subito effetto deja-vu. Ma a fare la differenza è la voce di Hyde, atonale e ipnotica, capace di portarci in territori sempre nuovi e sempre così caldamente "umani", a dispetto dell'apparente freddezza dell'elettronica che la accompagna.

Un'alchimia complessa, tra sintetizzatori old school, grandi pad dall'effetto ambient, ritmiche danzerecce e un cantato-recitato che è poesia contemporanea più che qualsiasi altra cosa.
Oblivion with bells riesce ad evitare così le difficoltà vissute, ad esempio, dai Chemical Brothers, che pur con lavori di grande livello sembrano aver smarrito la propria identità.
Qui invece, in brani come l'oscura Beautiful Burnout, oppure la spiritata Holding The Moth, la personalità del gruppo e la sua capacità di fascinazione restano inalterate.
Manca ciò che aveva reso famosi gli Underworld: un brano irresistibile e antemico come Born Slippy, Cowgirl o mmm Skyscreaper I Love You. Ma sinceramente non se ne sente la mancanza, e probabilmente insistere su certi discorsi avrebbe annacquato l'opera. La quale invece possiede un fascino senza tempo, e che certamente reggerà il confronto sulla lunga distanza. Per quanto mi riguarda, è quasi un mese che l'ho acquistato e non mi ha ancora stancato.
Vivamente consigliato.

4 novembre 2007

E' ufficiale: la musica dopa

E' iniziata da pochi minuti la maratona di New York. Un appuntamento che nel sottoscritto, impenitente pantofolaio e obiettore di coscienza per tutto ciò che riguarda l'attività fisica, richiama un carico di interesse pressochè nullo. Non quest'anno però, in quanto l'avvenimento podistico è stato anticipato da una sconcertante notizia: la Federazione Americana di Atletica ha vietato l'uso dei lettori mp3 agli atleti durante la maratona, in quanto l'ascolto di musica, alterando le prestazioni fisiche, può essere paragonato all'uso di sostanze dopanti.
Beh, io questa notizia l'ho trovata decisamente fantastica. Ho avuto, come tutti, un moto iniziale di sdegno (vietiamo anche la musica e siamo davvero a posto) misto a ilarità (la solita americanata), ma poi mi sono detto: quale migliore ufficializzazione dell'assoluta potenza della musica come aiuto psicologico, come compagna e amica della vita dell'uomo, come forma artistica nobilissima in qualsiasi sua forma? E poi: se ascoltare musica è la stessa cosa che iniettarsi steroidi, non vi pare una eccezionale informazione il fatto che assumere musica è come drogarsi ma senza farsi alcun male? Direte: questo l'ho sempre saputo. Ma in tanti, evidentemente ancora no.

Per chi volesse approfondire gli aspetti più "seri" di questa notizia, andando oltre il gossip e il folclore, segnalo che tutto nasce dagli studi di Mark Tramo, un ex musicista rock professionista che ha proseguito i suoi studi di Medicina fino a diventare direttore dell'Institute for Music and Brain Science di Harvard.

23 ottobre 2007

Dave is back

La "nuova vita" di Dave Gahan conosce un nuovo capitolo con l'uscita del suo secondo lavoro solista Hourglass.
Si è detto molto sulle tensioni interne che hanno caratterizzato gli ultimi anni della storia dei Depeche Mode e sulla "caduta agli inferi" di Gahan e relativa riemersione e riscatto.
Paper Monsters del 2003 era stato un gesto di sfida ai vecchi compagni di viaggio ed al proprio demone interiore. Un lavoro non perfetto, discutibile quanto si vuole, ma personale e diretto, che lasciava intravedere buone cose dietro certe ingenuità.

E' quindi ovvio (e dichiarato esplicitamente) lo sforzo di Gahan, con questo secondo lavoro, di affermare le proprie doti di autore e di affrancarsi definitivamente dal ruolo di eterno gregario di Martin Gore, dopo due decenni nei quali la sua voce è stata solo "uno strumento musicale" (parole sue) per i pezzi scritti dall'autore dei Depeche Mode.

L'album riesce quasi del tutto nell'intento, pur non facendo ancora gridare al capolavoro. La prima cosa che salta all'orecchio è il massiccio uso di elettronica, evitato nel precedente Paper Monsters. Evidentemente Gahan non teme più il confronto diretto con il sound del gruppo d'origine, e dunque non si è sentito obbligato ad affidarsi nuovamente alle sonorità rock che avevano caratterizzato il primo album della sua carriera solista. Una ostentazione di sicurezza che si può verificare anche nella stesura dei testi e negli arrangiamenti, più maturi e spesso anche più coraggiosi. Non si può dire lo stesso dal punto di vista strettamente musicale: almeno un paio di brani si salvano solo grazie al sapiente uso dei suoni, e penalizzano, soprattutto dopo ripetuti ascolti, la resa complessiva dell'album.

Hourglass è stato registrato in appena 8 settimane nello studio personale di Dave Gahan con la collaborazione di Christian Eigner e Andrew Phillpott, due musicisti che accompagnano da anni i Depeche Mode dal vivo.

L'album si apre con la sontuosa Saw Something, impreziosita da splendidi archi e da un assolo di chitarra molto d'effetto, opera dell'ospite di lusso John Frusciante. Peccato che il brano sia un po' troppo simile vocalmente a Sister Of Night (ben nota ai fan dei DM, da Ultra).
Segue Kingdom, brano scelto come primo singolo, caratterizzato da una ritmica martellante in puro stile nuovi DM. Molto radiofonico e dalla presa immediata, è un episodio decisamente commerciale ma ottimamente realizzato.
Con Deeper And Deeper si entra nella parte più interessante del disco. Molto elettronica e con un trattamento della voce decisamente inusuale, definisce lo stile dei brani che seguono.
21 Days tiene ancora i piedi ben saldi nell'elettronica. Un blues oscuro e minimale, che ricorda sorprendentemente i lavori di Alan Wilder nel progetto Recoil. Gli spunti di chitarra sembrano presi direttamente dal repertorio di Martin Gore.
Miracles è uno dei brani che si salvano solo grazie all'arrangiamento. Onore al merito però proprio a quest'ultimo: eccellente il trattamento della voce, splendida l'atmosfera crepuscolare.
Use You è il rimando più smaccato ai Depeche: ricorda immediatamente I Feel You, soprattutto per il pattern ritmico. Il confronto tra i due brani va ovviamente a favore del capolavoro del '93, ma ciò nonostante il pezzo si salva per l'ottima interpretazione di Dave.
L'oscura Insoluble fa il paio con Miracles: arrangiamento eccellente, sonorità trattate con perizia, ma a lungo andare si tratta di un brano troppo lento e poco convincente.
Endless riporta una certa energia, con un ritmo shuffle e sonorità alla Dream On.
A Little Lie è uno dei brani migliori dell'album, sia per la splendida linea vocale che per una certa originalità avvertibile nella struttura e nei suoni. Tornano di nuovo alla mente i Depeche Mode, ma non dispiace.
Si chiude con Down, ottimo brano dall'incedere cupo e maestoso che fa ben sperare per il prossimo lavoro solista di Mr. Gahan.

Hourglass non è ancora il meglio che sia lecito aspettarsi da Dave Gahan, ma è certamente un bel passo avanti dopo Paper Monster. Siamo tutti ad attenderlo al varco del terzo album, e speriamo che proprio la consapevolezza di ciò non comprometta il risultato.

Splendente Parov

Parov Stelar è l'intrigante pseudonimo utilizzato dal DJ e produttore Marcus Füreder (nonchè grande capo dell'etichetta Etage Noir Recordings) per la pubblicazione dei suoi lavori come musicista.
Un paio d'anni fa era stato proprio il moniker ad incuriorismi, imbattutomi per caso nella copertina del suo secondo album, Seven and Storm. Quel disco, ascoltato in negozio, mi era parso decisamente splendido.
Normalmente non sono particolarmente interessato a cose così house, ma qui si tratta di qualcosa in più. Nei dischi di Parov Stelar si mescolano infatti una straordinaria fascinazione per il jazz ed una il solida cultura elettronica, giocando sui punti di incontro naturali tra la scuola house austriaca e il piùclassico intrettenimento jazz da club: una certa propensione ai toni languidi ed all'oscurità, accenni malinconici sapientemente calcati, una ideale collocazione nella fumosa ambientazione da banco bar all'ora di chiusura, con in mano l'ultimo bicchiere.

Rough Cuts, primo album del 2004, poneva già in evidenza le ottime potenzialità dell'artista austriaco, capace di sfruttare al meglio le splendide voci a disposizione e gli ottimi strumentisti che partecipavano all'album. Solo qualche scivolone in alcuni brani un po' troppo leggeri impediva che il disco fosse un capolavoro.

Seven and Storm, del 2005, centrava invece la formula, con atmosfere languide e bilanciamento perfetto tra voci ed elettronica.

Shine, di recentissima pubblicazione, conferma i punti di forza del precedente e spazia un po' di più in ambienti elettronici. Il disco ha un avvio che sa più di radiofonico, con un paio di brani piacevolmente vivaci, per poi tornare ad atmosfere più rarefatte, fino a sfruttare, verso la fine, formule house più tradizionali. Un disco variegato che riesce a portare avanti un discorso che rischiava di appesantirsi dopo la seconda uscita, e invece dà prova dell'assoluta maestrìa di Füreder/Parov.

18 ottobre 2007

No Control

Ok. Sono un vecchio romantico, e questo a volte causa dei problemi.
Quando ho scoperto che non c'era ormai alcuna speranza di vedere nelle sale italiane il film di Anton Corbijn sulla vita di Ian Curtis (causa l'assoluta miopia dei distributori nostrani) ho ceduto alla tentazione ed ho comprato il CD con la colonna sonora del film.
Mi sono detto: "non posso accettare di restare completamente escluso da un evento come questo": attendevo il film da almeno un anno.

Già amareggiato dalla mancata uscita del film, è stato ancora più triste scoprire che questa colonna sonora è un mezzo pacco. Almeno per me.

In realtà la qualità del disco, in assoluto, potrebbe dirsi eccellente: il 70% dei pezzi è costituito da capolavori, e del restante 30% almeno la metà è piuttosto interessante.
Peccato però che di nuovo non ci sia praticamente nulla, mentre si era parlato di interessanti inediti dei New Order, recuperati addirittura da vecchie registrazioni dei Joy Division mai completate.

L'album, tra i brani già noti e ampiamente pubblicati, annovera tre canzoni dei Joy Division (Dead Souls, Love Will Tear Us Apart e Atmosphere), What Goes On dei Velvet Underground, la bellissima versione originale di Sister Midnight di Iggy Pop, 2HB dei Roxy Music, Drive In Saturday e Warszawa di Mr. Bowie, Autobahn dei Kraftwerk, She Was Naked dei Supersisters, e le versioni live di Boredom dei Buzzcocks e di Problems dei Sex Pistols. Una parata di classici, naturalmente. Mal assortita però dall'assenza di un vero filo conduttore musicale.

Veniamo allora agli inediti. Evidently Chickentown di John Cooper Clarke è solo un breve testo parlato utilizzato come intro per una nota esibizione televisiva dei Joy Division. I tre brani dei New Order (Exit, Hypnosis e Get Out) rappresentano la delusione più cocente: avrebbero dovuto essere il vero motivo per acquistare il CD, si rivelano invece tre brevi e insignificanti bozzetti di scarso valore. La "cast version" di Transmission è talmente simile all'originale da risultare del tutto inutile. Strano a dirsi, a questo punto la palma di brano più interessante dell'album spetta alla cover di Shadowplay realizzata dai Killers, che hanno saputo ricucirsela addosso senza stravolgerla troppo ma al tempo stesso senza clonarla in modo pedissequo.

Conclusione: se non avete gli originali dei JD, così come di Iggy, dei Roxy, di Bowie e dei Kraftwerk, cospargetevi immediatamente il capo di cenere e fiondatevi a comprarli. Di questa raccola fate pure a meno. Se invece avete 13 anni, i vostri idoli sono i Tokio Hotel, e non conoscete neppure uno dei nomi citati, allora potrebbe essere un buon punto di partenza.

14 ottobre 2007

The last Ministry

E' da qualche giorno che ascolto l'ultima fatica dei Ministry. Ultima in tutti i sensi, visto che lo sticker recita "The last studio album" e che i nostri hanno dichiarato di non avere intenzione di pubblicarne altri.
The Last Sucker è il titolo scelto dal gruppo di Al Jourgensen per il capitolo finale della saga iniziata nei primi anni '80 e proseguita con estro e ferocia per più di un ventennio, tra cambi di formazione e sterzate di genere. Un titolo cattivello, anche se il riferimento può essere doppio: al bersaglio abituale (se non sapete chi è ve lo dico io: Bush) oppure, ironicamente, al disco stesso.
L'album ad un primo ascolto potrebbe sembrare deludente, in quanto non contiene novità di sorta. Una gragnuola di mazzate violentissime di stampo techno-metal si abbatte sull'ascoltatore (da un punto di vista musicale) e sull'amministrazione americana (dal punto di vista dei testi, davvero poco politically correct) così come nei precedenti Rio Grande Blood (2006) e Mark Of The Molè (2004), con i quali viene a completare una ideale trilogia.
L'album è però degno di nota per la perfetta alchimia, per la convinzione straripante e per il mestiere che trasuda. Forse migliore del precedente, che tirava un po' più la corda.
Qualche brano da segnalare in particolare: una aggressiva cover di Roadhouse Blues dei Doors (irriconoscibile fino all'ingresso della voce), la veloce e devastante The Dick Song, il siparietto punk di Die In A Crash, il gran finale di End of Days, pt. 2.
Il resto è il solito ministrone (orrendo neologismo per "formula in stile Ministry": vi piace? no, eh?): attitudine industrial, chitarre heavy pesantemente manipolate, elettronica derivante, basso martellante, campionamenti demoniaci. Se si amano i Ministry, l'acquisto è obbligatorio. Se non li si ama, beh, che ne parliamo a fare. Se invece non sapete chi siano i Ministry, accidenti a voi, compratevi almeno Psalm 69. O The Land of Rape and Honey. Eccheccazz.

6 ottobre 2007

Chi va ancora a vedere i Cure?

Tutti abbiamo avuto un gruppo preferito. Almeno per un po'. Almeno nell'adolescenza.
Uno dei primi dischi che ho acquistato è stato The Head On The Door. Era uscito nel 1985, ma io credo di averlo preso nel 1986. O forse ho comprato prima Standing On The Beach? Mah, comunque era l'86. Sono passati 21 anni e i Cure restano, per questioni di DNA musicale, una delle pietre miliari della mia formazione. Almeno fino a Wish (1992) sono stati anche dei compagni di viaggio affidabili e mai noiosi. Peccato per le delusioni successive: Wild Mood Swings è una raccolta di intuizioni, alcune anche felici, che però non riesce a emozionare ne' a divertire a sufficienza; Bloodflowers è un disco gravemente noioso (mi viene in mente l'aggettivo "senile", che mi pare talmente triste che non so se scriverlo); The Cure mi era parso la pietra tombale su un gruppo che non aveva davvero più nulla da dire. Mi ero consolato con il mirabolante cofanetto della Fiction in 4 CD (un must) e con le riedizioni del vecchio catalogo in doppio CD. Si, mi sono svenato, ma dal mio punto di vista ne era valsa la pena. Tutta un'operazione nostalgia, però, un guardare al passato.
Ora leggo che si annunciano un nuovo album per la primavera del 2008 e un nuovo tour. Peccato, tra l'altro, doverlo scoprire dall'orribile sito ufficiale messo su dalla Geffen.
Il punto è: mi interessa? La formazione promette bene: dopo la cacciata di Roger O' Donnel e di Perry Bamonte, è rientrato Porl Thompson alla chitarra. Non si intravedono tastieristi all'orizzonte. Chissà. Forse Porl riuscirà a raddrizzare la bussola di Robert Smith, ultimamente piuttosto vacillante.
Mentre ci medito, vi segnalo le due date italiane del tour: il 29 febbraio a Roma (Palalottomatica) e il 2 marzo a Milano (Palasharp, ex Mazda Palace). Un pensierino ce lo faccio.

1 ottobre 2007

Radiohead? For download only

La buona notizia è che il nuovo album dei Radiohead è pronto per la pubblicazione. Dell'album si sa che il nome è "In Rainbows" e non molto altro.
L'altra notizia (deciderò poi se definirla cattiva) è che l'album, almeno per ora, non uscirà negli abituali negozi di CD.
Il sito dei Radiohead ci informa infatti che l'album sarà disponibile soltanto in due versioni, entrambe accessibili solo tramite web: download oppure boxset.
L'assoluta novità rispetto ad altre iniziative analoghe è che la versione download non ha un prezzo prefissato: starà a chi scarica decidere quanto pagare per avere In Rainbows sul proprio PC. Questo apre la porta a chi volesse procurarsi l'album a cifre irrisorie o a zero euro, ma consentirà anche a chi apprezzasse molto il gruppo di premiarlo con cifre più alte dei canonici 20 euro.
I Radiohead sono senza contratto discografico dall'uscita di Hail To The Thief e questa mossa sembra un vero e proprio schiaffo all'industria discografica. Neppure Apple si è salvata: il gruppo ha infatti rifiutato anche di mettere in vendita l'album su iTunes.
Insomma, i Radiohead viaggiano assolutamente da soli, ed hanno in un sol colpo scaricato le case discografiche e risolto brillantemente il conflitto con il p2p (perchè scaricare l'album dal mulo quando puoi farlo gratis dal sito ufficiale?).
La versione boxed è tutta un'altra storia: sarà composta di 2 CD, comprendenti anche brani in più rispetto alla versione download, di 2 LP in vinile con gli stessi brani presenti sui CD, e di vario altro materiale (booklet, foto). Anche la versione boxed sarà acquistabile solo dal sito: niente distribuzione nei negozi, almeno per ora. Peccato per il prezzo: 40 sterline, circa 57 euro.

Ora, mi rendo perfettamente conto dei motivi che hanno ispirato l'operazione, e trovo lodevole il tentativo di percorrere strade diverse da quelle tradizionali.
Non capisco però perchè i Radiohead debbano offrirmi solo due soluzioni agli antipodi tra loro: accontentarmi di musica in formato compresso (per quanto a prezzo libero) oppure decidere di spendere un capitale per la versione di lusso. Se tutti seguissero questa via, è ovvio che l'acquisto dell'originale diventerebbe cosa per collezionisti molto danarosi.
Non avrei disprezzato una onesta edizione in doppio CD oppure in doppio vinile, a prezzo dimezzato (20 sterline sarebbe stato ragionevole).

Il problema, dal mio punto di vista, è in ciò che leggo dietro queste scelte. Se accettiamo che sia definitivamente tramontata l'epoca del disco acquistato in negozio (e i segnali sono tanti), si apre uno scenario preoccupante per la diffusione della musica. Quanti artisti potranno sostenere le spese per autoprodursi un album e aspettare che le vendite online rendano un utile vantaggioso? Quanto potrà reggere il modello iTunes? E perchè dovrei adattarmi ad acquistare musica a qualità più bassa di quella del CD?
Non vorrei che dalla crisi dell'industria musicale (che non è crisi economica ma d'identità) ne venisse danneggiata la musica.

Insomma, valuterò poi se questa è, in effetti, una cattiva notizia.

25 settembre 2007

La parola a Johnny

Finalmente. In questo 2007 solcato da un commercialissimo quanto poco sentito revival del punk, è stato infine pubblicato qualcosa di utile. L'avevo notato con la coda dell'occhio in libreria qualche giorno fa, ma l'usuale giallo della copertina e la solita foto di Johnny Rotten me l'avevano fatto frettolosamente catalogare come ennesimo libro sul '76-'77, come altri ne avevo visto spuntare negli ultimi mesi.
E invece no, questa autobiografia di John Lydon viene a gettare un po' d'aria fresca su un fenomeno generalmente frainteso e vissuto ormai dall'editoria come puro folklore.
C'è da dire che l'edizione originale è del 1994, ma festeggiamo quanto meno l'edizione italiana e facciamo finta di niente.
Perchè mi piace tanto l'idea di questo libro (e sottolineo l'idea: non l'ho ancora letto, in effetti). Innanzi tutto, mi piace l'autore: Johnny Rotten è stato una delle teste pensanti del punk, molto più di quanto si fosse immaginato all'epoca, ed è stato anche uno dei più genuini esponenti di un'epoca e di una generazione, che non sempre sapeva cosa stava facendo. Lydon ha parlato poco, finora, della storia dei Sex Pistols. Quanto meno, ne ha parlato meno di molti giornalisti e di quel Malcolm MacLaren che lo stesso Lydon in questo libro definisce semplicemente "uomo di merda" (ebbene si, non l'ho letto ma una sfogliatina l'ho data).
E poi mi piace il taglio: nessuna mitologia, nessuna apologia, nessuna esegesi, sembrano trasparire dal volume. Semplicemente, il racconto di ciò che è stato, vissuto dall'interno. Ossia, esattamente l'unica cosa che ci possa interessare, e che importi qualcosa.
"Alcuni s'immaginano l'era dei Sex Pistols in diverse gradazioni di bianco e nero. A dire il vero, i colori che ho in mente io sono verde neon o militare con rosa fluorescente: basta che diano fastidio. Può darsi che in fondo sia un intellettuale, ma ho sempre pensato che i colori, come le parole, come le intonazioni, influiscano sulle persone".
"(Sid) era diventato tutto quello che non volevo fossero i Sex Pistols: l'ennesimo rockettaro sfigato e drogato."

17 settembre 2007

E' morto il CD, viva il CD!

Compact Disc. Ricordo come ieri i giorni in cui lessi per la prima volta di questo strabiliante ritrovato della tecnica moderna. Se non sbaglio si trattava di un roboante articoletto trovato in una copia del Reader's Digest che girava per casa. Ero piuttosto piccolo, ma mi colpì molto la vantata indistruttibilità del supporto (si narrava di prove di resistenza mitologiche, quali il lancio dalla cima dell'Empire State Building) e la possibilità di abolire la separazione tra lato A e lato B. All'epoca ascoltavo solo classica, e soffrivo di cose tremende quali la divisione in due parti del terzo movimento della nona di Beethoven, necessaria sul vinile per farci stare l'intera sinfonia. Non mi sorprese scoprire che la durata di 74 minuti era stata suggerita da Karajan proprio pensando alla nona.

A distanza di più di vent'anni, mi trovo mio malgrado ad iniziare a scorgere in giro i segni di un prossimo pensionamento del compact disc. L'"era digitale" conteneva in se' stessa i germi di ciò che sarebbe poi accaduto: napster, il p2p, la vendita di musica online, l'iPod. Tutto sembra congiurare contro questo inutile pezzo di plastica che ha accompagnato la mia generazione (e qualche altra) nel mondo della discografia.

Scriveva Steve Albini nel 1987 sull'edizione in CD di una raccolta dei Big Black ("Eight Track Tape"): "[...] Don't worry about their longevity, as Philips will pronounce them obsolete when the next phase of the market squeezing technology bonanza begins". Questo nel libretto. Sul CD invece è stampato quanto segue: "When, in five years, this remarkable achievement in the advancement of fidelity is obsolete and unplayable on any 'modern equipment', remember: in 1971, the 8-track tape was the state of the art".

Quando, nei giorni scorsi, mi sono messo alla ricerca di un nuovo Discman, o lettore portatile che dir si voglia, ed ho scoperto che quasi nessun negozio di elettrodomestici ne vende più, a favore di banchi e banchi di lettori mp3 ed iPod, queste parole mi sono sembrate di grande saggezza.

Albini aveva sbagliato solo nella previsione limitata a cinque anni, ma questo è giustificabile con il malumore del momento, che doveva somigliare tanto a quello che mi ha assalito quando la consapevolezza mi ha raggiunto.
Cosa ne farò di migliaia di compact disc che mi riempiono la stanza? Li convertirò in mp3? E' fantastico osservare quanto lo standard per l'audio, invece di migliorare, peggiori. Il discorso è molto lungo, lo approfondirò un'altra volta.
Per ora metto su i Big Black.

8 agosto 2007

wanna sniff some glue?

Il punk è stato un fenomeno culturale complesso e ricchissimo, molto più di quanto si sia portati a immaginare. L'avvio della rivoluzione punk si fa tradizionalmente coincidere con l'uscita di Never Mind the Bollocks dei Sex Pistols nel 1977, ma da un punto di vista discografico era iniziata almeno un anno prima, quel 1976 che negli Stati Uniti vedeva l'uscita dell'album omonimo dei Ramones e nel Regno Unito un'esplosione di singoli ed ep autoprodotti e con nessuna ambizione se non quella di "esserci". Quello che può essere considerato il periodo "classico" del punk si è praticamente bruciato nell'arco del biennio 76/77, sebbene musicalmente traesse ispirazione da un filone inaugurato dagli Stooges addirittura nel '69, e protratto fino ai giorni nostri attraverso mille sotto-filoni e ramificazioni (hardcore, oi, psychobilly...).
Il punk è stato un fenomeno musicale ma anche, come si diceva, culturale nel senso più ampio. Dall'abbigliamento alla visione politica, si trattava di una controcultura che aveva nei suoi principali antagonisti il barocchismo del rock progressivo e la fuga dalla realtà della cultura hippy, e che traeva il suo humus più fertile nella disoccupazione generalizzata e nelle pessime condizioni di vita della classe operaia sul finire degli anni '70.
Non stupisce dunque che il punk sia stato anche fatto di parole, mai come prima nella storia della musica popolare; e lo testimoniano sia l'importanza attribuita ai testi, sia il sorgere come funghi di fanzine che testimoniavano un fermento ed una discussione continua attorno al ruolo dei gruppi, alla loro "fedeltà alla linea", all'importanza di certi slogan. La più famosa di queste fanzine è stata sicuramente Sniffin' Glue, un piccolo periodico scritto un po' a mano e un po' ciclostilato, stampato su fogli A4 fotocopiati, con fotografie ritagliate da giornali ma a volte originali, che proprio nel biennio 76/77 ha seguito la nascita del movimento e i primi passi di gruppi come Clash, Ramones, Damned, Sex Pistols, Buzzcocks, Saints, e decine di altri.
Il padre di Sniffin' Glue fu Mark P. (Mark Perry), leader degli Alternative TV, e proprio lui fu il primo a stupirsi del successo della fanzine e del passaggio dalle poche decine di copie alla circolazione in migliaia di esemplari. Un successo che, come per ogni vero successo punk, non poteva durare a lungo. La fanzine si fermò al numero 12 e i componenti della "redazione" presero ognuno la propria strada, dopo aver partecipato a scrivere la storia del punk in diretta e dall'interno.
Oggi che si parla di trentennale (anche se, come già detto, siamo almeno a 31 anni dall'inizio della storia) mi sembra giusto parlarvi di tutto ciò, anche perchè mi è capitato tra le mani un prezioso volume, del quale conoscevo l'esistenza ma che non avevo ancora mai visto in Italia.
Il libro si chiama "Sniffin' Glue - The Essential Punk Accessory", è uscito nel 2000 ed è stato curato con l'assistenza di Mark Perry. La cosa davvero straordinaria del libro - che è in Inglese, quindi siete avvisati - è che non solo racconta la storia della fanzine con più di 100 pagine di interviste e fotografie, ma contiene - udite, udite - la riproduzione di tutti i numeri originali.
Io l'ho trovato in un negozio Mondadori in offerta a 9,99 €. Forse fate ancora in tempo...
La lettura è consigliatissima anche per le sorprese che può riservare. Ad esempio, la recensione dei Blue Oyster Cult nel primo numero, oppure il fatto che il termine new wave venga di continuo utilizzato come sinonimo di punk.
Un'avvertenza: la rilegatura del volume è davvero pessima e le 139 pagine a colori vengono via una ad una senza pietà. Pare che la colla utilizzata fosse davvero poca. Dopotutto, cosa potevo aspettarmi da un libro su una fanzine punk che si chiama "sniffare colla"?


24 luglio 2007

Brindiamo con Fiumani

"Scrivo questo libro per avere un po' di successo. Un successo circoscritto ma caloroso, underground. Aria malsana delle cantine dove ti vergogni di passare la tua vita ma dove (e solo lì) ti senti nella tua dimensione ideale."

Federico Fiumani, cantante e chitarrista dei Diaframma, è uno dei pochi veri personaggi di culto rimasti in Italia. Testardamente ha portato avanti per quasi un quarto di secolo un percorso artistico difficile, fatto di auto-produzione, di poca o nessuna promozione, di tantissimi concerti in piccoli locali, e di pochi riconoscimenti, se si esclude il costante affetto dei sostenitori.

L'amore per il punk "marcio e sporco", aneddoti e pettegolezzi sulla Firenze new wave dei primi anni '80, commenti e punti di vista su alcuni artisti italiani, l'amore per le donne, il sesso, il trauma per la morte del padre. Questi i filoni principali toccati da Fiumani in questa autobiografia molto
sui generis. Il volume si snoda come una successione di narrazioni e riflessioni priva di un ordine temporale e di raggruppamenti o suddivisioni di qualche tipo. Una formula che facilita il senso di intimità che il libro instaura tra autore e lettore, anche tramite rivelazioni molto personali su episodi che in genere si tengono fuori dalla biografia di un musicista, o che altri avrebbero ammantato con un alone di mistero, di epico che potesse elevare il personaggio a uomo fuori dal comune.

E invece Federico è un uomo normalissimo, e in questo Brindando coi Demoni lo conferma spiattellando vizi, difetti, ed anche qualche cattiveria, con una sincerità (apparente?) che disarma. Chi è abituato ai testi delle canzoni di Fiumani non si stupirà dello stile del volume, anzi ne godrà parecchio. Soprattutto notando il notevole passo in avanti dal precedente
Dov'eri tu nel '77? che risultava più frammentario e meno solido.

Agli altri consiglio la lettura del libro, ma anche di dare un ascolto ai dischi. Cose come Siberia e Tre Volte Lacrime hanno fatto la storia degli anni '80 italiani. Ma si trovano belle cose anche dopo: Anni Luce, Sesso e Violenza, I Giorni dell'Ira, Volume 13, per citare solo qualche titolo. "Quando parte il mio stereo con la musica che mi va di sentire mi sembra che la vita cominci, che ci sia ancora speranza".

23 luglio 2007

Buddhismo Stick

Vi dico subito, onde evitare che sviluppiate inutilmente una irrefrenabile compulsione all'acquisto, che il CD di cui sto per parlarvi è sostanzialmente introvabile. L'ultima copia in circolazione l'ho probabilmente acquistata io, per la esorbitante cifra di 3 euri in un negozio di usati. Posso dunque finalmente vantarmi di possedere una delle 2000 copie esistenti, il che mi dà una certa soddisfazione.

Il disco si chiama Inaudito ed è attribuito ai Buddha Stick, collettivo capitanato da Sergio Messina alias RadioGladio. Un personaggio forse non particolarmente noto ai più, ma di tutto rispetto e di chiara fama all'interno della cosiddetta "scena musicale italiana": un paesaggio piuttosto desolato ma punteggiato qua e là da figure come questa, che fanno un sano sforzo per tirare un po' su la media nazionale.

Sergio Messina creò RadioGladio nel 1990 per la realizzazione di una omonima cassettina autoprodotta, contenente un brano dedicato allo scandalo Gladio. La cassetta fece scalpore (ma neanche un centesimo di proventi, essendo assolutamente no copyright e liberamente copiabile) e un tale Frank Zappa dichiarò che si trattava di una "dimostrazione di come la musica possa servire ad aprire gli occhi alla gente".

Se volete saperne di più su RadioGladio, il punto di partenza è certamente questo:
http://www.radiogladio.it/

Buddha Stick altro non è se non una diversa incarnazione di RadioGladio nata nel 1996. Pur partecipando al progetto altri musicisti, infatti, la scrittura dei brani, la direzione artistica e la produzione di Inaudito sono dovute al solo Messina.

Cos'ha di tanto particolare quest'album, oltre alla rarità?
Per prima cosa, è un disco intelligente. So di usare un aggettivo abusato e spesso applicato a sproposito, ma è proprio questa l'impressione al primo ascolto (ed anche ai successivi, in verità): c'è un cervello in movimento dietro questi brani, e i messaggi trasmessi non sono messi lì a caso.

Il vocabolo più adatto a riassumere il senso del progetto è "libertà". I brani sono legati da un filo conduttore ben visibile: affermano un desiderio di libertà e indipendenza, istanze quotidianamente frustrate nella vita contemporanea.
Nonostante siano espliciti alcuni riferimenti alla cronaca (un brano ad esempio è dedicato al processo per la strage di Piazza Fontana) il disco è decisamente senza tempo, e sembra pericolosamente attuale nel 2007 come lo era nel '96 e come lo sarebbe stato anche nell'86. In una certa ottica, l'Italia è un paese immobile, e l'ascolto di questo album non fa che confermarlo.

Dal punto di vista musicale il disco è la somma di 12 bozzetti di varia ispirazione, splendidamente realizzati e accomunati dalla capacità di creare ambienti sonori di grande fascinazione, nei quali è facile immergersi e lasciarsi trasportare.
I testi non voglio raccontarli: spero di aver suscitato sufficiente curiosità.

Lascio per ultima la vera buona notizia, piccolo premio per chi mi avesse seguito fino a qui: Inaudito può essere liberamente scaricato, compreso di copertina. Lo trovate qui:
http://buddhastick.enemy.org/
L'album è no copyright e può essere tranquillamente scaricato e stampato senza infrangere alcuna legge. Inoltre, per lo stesso motivo, può essere copiato e regalato agli amici. Il che sarebbe davvero una buona idea.


18 luglio 2007

subHuman: electric blues from Alan Wilder.

Ben 7 anni si è fatto attendere Alan Wilder prima di dar seguito al progetto Recoil, avventura solista inaugurata ai tempi in cui ancora militava nei Depeche Mode e poi portata avanti con successo nella seconda metà degli anni '90 con un paio di ottimi album.
L'ho aspettato a lungo questo disco, e quando ho scoperto che stava per essere distribuito ho assaporato un "piacere dell'attesa" che, devo confessare, non provavo più da un po' di tempo. Sarà per questo che quando finalmente l'ho posseduto ed ascoltato, sono rimasto un po' deluso.

E' vero che il prodotto supera di gran lunga la media delle uscite di quest'anno, e sviluppa con coerenza in 7 lunghi brani un discorso già avviato dal musicista britannico nelle opere precedenti. Non lo sviluppa però nella direzione che mi aspettavo, e che avrei preferito. Il disco, pur intenso ed avvolgente, difetta infatti della stupefacente ampiezza cromatica che aveva caratterizzato i suoi due predecessori (Unsound Methods, del 1997, e Liquid, del 2000). Accantonate le scelte più marcatamente trip-hop e le trame più sperimentali, Wilder costruisce con quest'album un efficace mantra blues che tende all'effetto ipnotico più che a quello drammatico ed inquieto che segnava le due opere di fine secolo.

Complice nella costruzione di una atmosfera calda, intensa, ma a tratti un po' monotona, è la scelta delle voci che popolano l'album. Stavolta, anzichè circondarsi di un gran numero di comprimari come nelle due prove precedenti (6 voci si alternano al microfono in Unsound Methods, 5 voci più un quartetto in Liquid), Wilder preferisce affidarsi a due soli interpreti, rinunciando al carattere babelico dei lavori precedenti.
Joe Richardson, grande bluesman americano, interpreta la maggior parte dei brani; Carla Trevaskis, cantante anglosassone che ricorda molto la Kate Bush più eterea, presta la voce solista in due occasioni e appare qua e là in secondo piano.
Le pur bellissime voci (sicuramente di grandissimo valore la prova di Richardson, forse meno convincente Trevaskis che mostra una minore varietà di stile) contribuiscono ad appiattire la sostanza sonora, laddove si desidererebbe qualche spigolo in più.

E' evidente che Wilder abbia cercato in questo disco di accentuare le componenti più blues e a tratti jazz del suo lavoro; e lo ha fatto con la perizia che ci si attende da uno come lui, sia nelle partiture musicali che negli arrangiamenti, tutti di altissima scuola.
Peccato solo per una certa mancanza di coraggio, o forse per la raggiunta "serenità artistica" che ha smussato l'inquietudine e la controllata schizofrenia che si poteva avvertire finora nel progetto Recoil.

Non per questo il disco non risulta godibile, o merita di essere sconsigliato. Piacerà soprattutto a chi ama le belle voci, le atmosfere avvolgenti, il calore del blues. Un po' meno forse agli amanti dell'elettronica.

Una curiosità: Alan non resiste stavolta alla tentazione di citare i Depeche Mode, cosa che non faceva dall'ep Hydrology, pubblicato però quando ancora era parte del fortunato quartetto. Un campione di un brano di Songs of Faith and Devotion si può facilmente riconoscere in almeno due momenti del disco. Quali? Scopritelo, mica posso dirvi tutto!

16 luglio 2007

Addio al bollino?

In Italia ci sono due linee di pensiero in merito al bollino SIAE.
In primis ci sono quelli che lo odiano perché deturpa i supporti sui quali è incollato. A questi si contrappone la più ridotta schiera di quanti invece lo odiano perché sono costretti dalla legge ad applicarlo ai propri supporti CD/DVD da mettere in vendita.

Per tutti coloro che dovessero appartenere alla terza categoria (ossia quelli che non sanno cosa sia il bollino SIAE), potrebbe essere utile dare una scorsa alla pagina informativa sul
contrassegno, disponibile sul sito della SIAE medesima:

http://www.siae.it/utilizzaopere.asp?link_page=contrassegni_bollino.htm

Non vorrei dare l'impressione di essere tra coloro che non danno peso al problema della pirateria. Onde evitare fraintendimenti, specifico subito che considero la pirateria (quella vera, ossia la duplicazione e messa in vendita di copie contraffatte) un danno piuttosto serio per l'industria e per gli artisti.

Ciò detto, il problema di fondo sta nel fatto che il bollino in questione, pensato come "strumento di autenticazione e di garanzia, ad uso sia delle Forze dell’Ordine che del consumatore" al fine di poter "distinguere il prodotto legittimo da quello pirata", ha effetti spesso dannosi su chi produce musica e su chi ne consuma, producendo situazioni paradossali (di cui parlerò nel seguito) e incrementando non di poco la già diffusa antipatia popolare nei confronti della SIAE (la quale, ricordiamolo, sarebbe in effetti la "Società Italiana Autori ed Editori", ma viene invece diffusamente percepita come un incrocio tra l'anonima sequestri e la Gestapo).

Innanzi tutto diciamo che i costi di produzione (e soprattutto quelli di auto-produzione) della musica in Italia diventano spesso insostenibili anche (non soltanto, purtroppo) per il costo del bollino, il quale va a gravare su una situazione già poco rosea per chi voglia realizzare musica in modo indipendente nel bel paese.

La buona notizia però è che la validità della normativa in merito ai bollini è stata messa in discussione in un caso giudiziario che sta facendo notizia tra gli addetti ai lavori.
In sintesi, si tratta di un caso penale nel quale un cittadino austriaco è accusato, in quanto rappresentante legale di una società italiana, di aver commercializzato alcuni CD ROM privi del bollino.

Il tribunale ha ritenuto opportuno chiedere una verifica alla Corte di Giustizia europea in merito alla legittimità della legge italiana che richiede la "bollinatura" dei supporti.
La legge in vigore in Italia appare infatti in contrasto con la normativa europea, la quale richiede che gli stati membri che intendano adottare una normativa tecnica, debbano prima notificare il progetto legislativo alla Comunità Europea.

Ciò non è stato fatto dall'Italia, la quale infatti si ritrova ad avere una norma in materia differente dagli altri paesi europei. La Commissione ha affermato che le norme italiane sono state effettivamente emanate in violazione del diritto comunitario, ossia senza che ci fosse stata alcuna comunicazione alla Commissione.

Per chi volesse approfondire i dettagli consiglio di leggere l'articolo pubblicato da Punto Informatico:
http://punto-informatico.it/p.aspx?i=2031028

Segnalo anche una pagina più "tecnica":
http://www.civile.it/news/visual.php?num=42508

Ma al di là delle questioni tecniche e legali, non penso di essere il solo a tirare un respiro di sollievo nell'apprendere che il bollino viene contestato a livello europeo. E' questa infatti l'unica speranza che abbiamo di poter vedere, un giorno non tanto lontano, abolito questo odioso sistema medievale di "timbratura" dell'opera dell'ingegno.
Un sistema che attualmente, oltre al già citato effetto su chi la musica la produce, ha per tutti i fruitori della musica uno svantaggio almeno duplice.
Innanzi tutto (e per un collezionista come me questo è un punto molto sentito) deturpa l'artwork del CD e/o DVD, soprattutto quando si tratta di un bel packaging in cartone, e proprio per questo dal maggior valore estetico. Ho visto veri e propri obbrobri che gridano vendetta, e spero in futuro di non vederne più.
In seconda istanza l'apposizione del bollino genera un paradosso: un CD originale e legalmente acquistato può essere considerato illegale, e il proprietario passibile di sanzione, se solo manca il bollino. Il quale può mancare perché era stato incollato alla plastica protettiva, che è andata via subito dopo l'acquisto (dovrò pur aprirlo il CD), oppure perché la custodia di plastica si è rotta e ho dovuto cambiarla (succede al 10% almeno dei CD) , ma anche perché mi faceva schifo lì dov'era (mai capitato che sia incollato sui titoli dei brani?) e ce l'ho tolto (provate con lo Svelto, fa miracoli, mai usare invece l'alcool e spugne abrasive).

Oltre alla rimozione di questi spiacevoli inconvenienti, l'eventuale dichiarazione di illegittimità del bollino può aprire uno spiraglio a quanti utilizzano legittimamente copie dei propri dischi originali (copie perfettamente legali e previste dalla legge) per l'ascolto di musica in auto o al mare, oppure (e qui si tocca un punto davvero dolente) per poter svolgere l'onestissimo lavoro di DJ.
Attualmente, infatti, in caso di ispezione la SIAE può comminare salatissime multe a chi venga "beccato" in possesso di copie, in quanto queste mancano del bollino, anche nel caso in cui l'accusato possa dimostrare in modo indiscutibile il possesso degli originali.

Non vedo l'ora di poter dire all'ispettore SIAE che la sua multa può infilarsela su per il... naso.
Come dite? Che troveranno un altro cavillo per fare lo stesso la multa? Beh, almeno fatemi sognare un po'.

10 luglio 2007

what's your favourite colour?

Partenza in salita ieri sera per l'unica data italiana del tour dei Living Colour: il bus che trasporta la band statunitense in giro per il mondo ha ceduto da qualche parte durante il tragitto per Milano, con conseguente catastrofico ritardo nell'arrivo dei quattro musicisti di New York al Transilvania.

I Living Colour arrivano infine poco dopo le 22, tra gli applausi del pubblico in attesa, che sono costretti ad attraversare per accedere al palco. Pubblico piuttosto folto in considerazione delle piccole dimensioni del locale, ma in definitiva non numerosissimo se si considerano i fasti della formazione in programma.
Un'ora scarsa di check (durante la quale non tutti i problemi verranno risolti, approssimativo ad esempio il suono della batteria) e si parte.
L'attesa a questo punto si rivela totalmente ripagata da una performance di altissimo livello.
Pur stanchi per le peripezie del viaggio e non certo entusiasti dei soliti problemi che assillano chiunque suoni nel locale di via Bruschetti (spazio ridotto all'osso, acustica da suicidio) i quattro musicisti di colore hanno dato grandissima prova della leggendaria perizia di esecutori e del caratteristico mix di generi che li contraddistingue, spaziando, grazie anche a lunghe improvvisazioni, dal rock al funk, dal free jazz all'heavy metal, dall'hip hop al blues, e chi più ne ha più ne metta in un caleidoscopio vorticoso che ha esaltato gli astanti, trascinati più volte al pogo e coinvolti nell'esecuzione della maggior parte dei brani da un Corey Glover in stato di grazia.


Tra i pezzi eseguiti cito, in ordine assolutamente sparso, Funny Vibe, Sacred Ground, Love Rears Its Ugly Head, Glamour Boys, Type (quasi irriconoscibile in un nuovo arrangiamento), Go Away, Memories Can't Wait, Ignorance Is Bliss, Flying, In Your Name, Cult of Personality (come al solito in chiusura del set), What's Your Favorite Color? (in versione estremamente libera).

Indimenticabile il lungo assolo di William Calhoun, in parte accompagnato da improvvisazioni elettroniche di Vernon Reid al laptop Mac, durante il quale il Nostro non solo ha cercato di non farci dimenticare il diploma conseguito al Berklee ormai più di due decenni fa, ma ha dimostrato brillantemente cosa possano fare una grande perizia esecutiva ed ad un abbondante uso di tecnologia e campionamenti se miscelati con gusto musicale ed inventiva.

Numerosi gli inserti chitarristici del mai abbastanza celebrato guitar hero Reid, sempre in bilico tra omaggi hendrixiani, spericolate armonizzazioni jazzistiche, ritmiche funky-disco.

Menzione speciale per Doug Wimbish, vera macchina ritmica per tutta la serata, che ha anche cantato un brano originale di Calhoun (non trascendentale ma molto godibile) con piglio deciso e doti vocali da cantante solista.

Se vi sembra ci sia un po' troppo entusiasmo in questa recensione... beh, è perché non c'eravate.