Quando arriva qualcosa a nome Wovenhand, o con lo zampino di David Eugene Edwards, mi fiondo senza troppa riflessione.
E quindi eccomi tra le mani il nuovo album, che si presenta col brillante titolo The Laughing Stalk * e con una parimenti brillante (in senso fisico) copertina dai toni cangianti che mal si presta ad essere riprodotta in foto (maneggiare per credere).
Due segnali fanno comprendere quale fosse la voglia di novità di Edwards per questo sesto album. Il primo è la produzione affidata ad Alexander Hacke (noto soprattutto per la militanza negli Einstürzende Neubauten); il secondo è la rivoluzione dell'organico, che vede la dipartita di Pascal Humbert (già nei 16 Horsepower, in formazione Wovenhad dai tempi di Mosaic), sostituito dal nuovo bassista Gregory Garcia Jr, e l'ingresso del secondo chitarrista Chuck French.
Grazie a queste novità, Laughing Stalk suona decisamente più duro e rumoroso della media degli album precedenti, affiancandosi forse al solo Ten Stones che nel 2008 aveva rappresentato una variante più robusta del classico mix di folk, reminiscenze gothic e alt rock all'americana tipico della band.
Il risultato mi trova però solo parzialmente soddisfatto. Pur apprezzando l'idea di non ripetere stancamente la propria formula, trovo che gli arrangiamenti e in particolare l'arricchimento del suono con la seconda chitarra non siano sempre funzionali all'equilibrio delle composizioni. Funziona alla perfezione sulla traccia di apertura Long Horn, o sul country-punk alla Gun Club di As Wool, ma lascia qualche perplessità su brani come In The Temple che avrebbe forse goduto maggiormente del solito trattamento Wovenhand.
Il meglio questa formazione lo dà probabilmente nell'intensa, cupa e ipnotica Maize, ma anche nella conclusiva e più variegata Glistening Black, ottimo epitaffio per un'opera forse un po' fuori fuoco ma che evita brillantemente il ristagno che si poteva temere dopo The Threshingfloor (un album che, come dicevo due anni fa, sapeva molto di già sentito).
* (storpiatura dell'espressione idiomatica laughing stock che sta
ad indicare lo "zimbello del paese", un modo di dire derivante dall'abitudine tardo medievale di assicurare per le caviglie o per i polsi ad assi di legno - gli "stock", appunto - coloro che per colpe
di non grave entità venivano esposti al pubblico ludibrio agli angoli
delle strade).
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18 novembre 2012
15 giugno 2010
Wovenhand: The Threshingfloor

The Threshingfloor è il quinto album di inediti partorito dai Wovenhand di Eugene Edwards, arriva due anni dopo l'ottimo Ten Stones e l'ho atteso con una certa trepidazione.
Il disco l'ho ascoltato ormai diverse volte e devo dire di essere sorpreso dall'effetto che ne ho avuto: è come se questo disco non fosse uscito, come se lo attendessi ancora.
Qual'è il problema? Nessuno, in effetti: l'album è molto bello e lo consiglierei ad occhi chiusi a chiunque non conoscesse ancora la band statunitense.
Ma è un disco talmente "Wovenhand" da sembrarmi già sentito mille volte: sonorità, atmosfere, strutture, tutto mi sembra un'eco dei lavori precedenti. Non siamo certo di fronte ad un fenomeno di auto-plagio; ma avrei probabilmente gradito maggiormente qualche tentativo di innovazione. Con questo pensiero in mente, lo rimetto su, che mi piace da impazzire.
29 novembre 2008
Wovenhand live 28/11/2008

Ma David Eugene Edwards è uno che sul palco si immerge in una trance che prescinde dal luogo e dal numero dei convitati, riuscendo a regalare lo stesso spettacolo davanti a dieci, come a mille, come - ed è il caso di ieri sera - a cento persone mal assortite ed infreddolite- tra l'altro sorprese, nella mattinata, da una imprevista nevicata che aveva ricoperto la città, donandole un aspetto che ogni volta appare del tutto irreale.
I Wovenhand dal vivo sono una vera band, con la formazione dell'ultimo Ten Stones: Edwards canta e suona chitarra, banjo e fisarmonica, alla batteria c'è Ordy Garrison, al basso Pascal Humbert (già nei 16 Horsepower), alla chitarra Peter van Laerhoven. La band suona in modo molto potente, più di quanto mi aspettassi, con una fedeltà eccezionale al sound di studio.
L'avvio è fulminante, con i migliori brani dell'ultimo

Il gruppo di Denver mescola sacro e profano creando un folk rock molto gotico in cui si ritrova di tutto: country punk, canti degli indiani d'America, spiritual e western, ma anche la tradizione dark inglese, evidente in molti suoni di chitarra, a volte affilatissima, e soprattutto nel drumming che soprattutto nei brani più recenti si avvicina molto allo stile di gruppi come Joy Division e Siouxsie.

Nessun momento di calo di tensione nella scaletta: vengono inanellati uno dopo l'altro brani dai 4 album della band: ricordo in particolare Deerskin Doll, Not One Stone, Your Russia, oltre alla splendida American Wheeze dei 16 Horsepower, fantastico regalo a chi non si aspettava di poterla più ascoltare eseguita dal vivo.
Una serata intensa, greve, un pugno di canzoni che scavano nel ventre dell'ascoltatore alla ricerca di segreti che neppure lui conosce. Grazie.
5 settembre 2008
Ten Stones

Il gruppo stanutitense ha fin qui centrato tre splendidi album dal mood cupo e introverso, attraversati però da forti tensioni drammatiche, capaci di fare presa sulla sfera più emozionale dell'ascoltatore.
In particolare Consider The Birds (2004) aveva definito in modo molto convincente i tratti del mondo Wovenhand, elementi confermati poi nel successivo Mosaic (2006).
Il nuovo ten Stones spariglia un pò il gioco, riprendendo degli elementi dai 16 Horsepower e soprattutto rimettendo al centro soluzioni più tipicamente rock, sempre ovviamente marchiate dalla personalità inconfondibile di Edwards. Si tratta di un nuovo tassello nella produzione di questo cantastorie con un piede affondato nel passato e l'altro piantato nel presente, il cuore gravido di inquietudine e nessuna visione del futuro.
Roba per malinconici, si dirà, ed è vero: ma in un genere dove è fin troppo facile rendersi parodia, questo è un album da accogliere con grande rispetto e ammirazione.
Nel frattempo, è stato pubblicato un bel live doppio dei 16 Horsepower, che mette riparo al live stampato qualche anno fa che non faceva dell'aspetto tecnico il proprio punto di forza. Stavolta invece all'eccellente verve esecutiva della band fanno da contraltare un'edizione curata con tutti i crismi e una qualità audio più che discreta.
Un bel paio di uscite da cogliere al volo, per tirarsi giù il morale quando necessario.
1 febbraio 2008
I prediletti di gennaio 2008

01. Gravenhurst Fires In Distant Buildings (2005)
La scoperta dell'ultimo The Western Lands mi ha portato a recuperare anche i lavori precedenti. Fires In Distant Buildings è un bellissimo disco che mescola folk acustico catartico e incursioni elettriche ansiogene.
02. Wovenhand Mosaic (2006)
Siamo anche qui in territori post-folk, con una predominanza di colori tetri e atmosfere plumbee. Il progetto di David Eugene Edwards, al terzo capitolo con quest'album, è come una cavalcata all'inferno alla ricerca di persone perdute.
03. Autonervous Autonervous (2006)
C'erano una volta i Malaria!, gruppo al femminile attivo in Germania negli anni '80. Di quel collettivo faceva parte Bettina Köster. Dal sodalizio di quest'ultima con la più giovane Jessie Evans nasce quest'album, fatto di elettronica anarchica punteggiata dal sax, con un gusto inconfondibilmente berlinese.
04. Gudrun Gut I Put A Record On (2007)
Nelle Malaria! di Bettina Köster c'era anche Gudrun Gut, oggi a capo della piccola etichetta Monika Enterprises. Questo suo esordio solista sfugge ad ogni classificazione. Musica da club, heartbeat, sperimentazione, minimalismo.
05. Franco Battiato Fetus (1972)
Una robetta fresca fresca, riascoltato in un rigurgito di revivalismo. Molto più attuale di quanto ci si aspetterebbe, e più vicino al Battiato di oggi rispetto agli altri lavori degli anni '70.
06. Big Black Pigpile (1992)
"One, two... fuck you!". Il live del gruppo di Steve Albini si può vivere sia come una compilation che come una riprova della vera sostanza espressa dai Big Black. I brani spesso scheletrici e disarticolati, ritrovano incredibile vitalità nelle versioni dal vivo.
07. The Cure Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987)
Negli anni questo disco non ha mai smesso di esercitare la sua fascinazione su di me. Psichedelia oscura e pop luccicante che, piuttosto che fondersi, si alternano da un brano all'altro. A perfect record.
08. Einstürzende Neubauten Alles Wieder Offen (2007)
L'inaspettata evoluzione della combriccola di rumoristi capitanata da Blixa Bargeld. Dopo un paio di album dedicati al silenzio ed alla quiete, una funambolica riscoperta del futurismo.
09. Diamanda Galas & John Paul Jones The Sporting Life (1994)
Il più "facile" tra i dischi dell'incredibile cantante di origine greca, in cui la potenza e l'istrionismo vocale di Diamanda vengono supportati dall'intelligenza ritmica dell'ex bassista dei Led Zeppelin. Una chicca.
10. Wire Read & Burn 03 (2007)
Mi stancherò di ascoltare questo EP? Mah.
4 brani per 25 minuti di delizia.
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