30 dicembre 2011

Ciao 2011, ovvero il mega post di fine anno

Ho sempre avuto sulle balle i consuntivi di fine anno (parlo di quelli musical-discografici, ma in altra sede potrei estendere il concetto...).
Non mi metterò dunque a dire cosa salvare e cosa buttare dell'anno passato ne' a tirare giù una classifica dei dischi "importanti". Questa roba non frega a nessuno, e poi in quelle liste si finisce sempre per dire delle cavolate pazzesche (non che non ne dirò lo stesso).

Ho però da parte un po' di titoli di dischi ascoltati, digeriti e per i quali non ho trovato tempo di dare conto qui. Il mega post di fine anno lo dedico dunque a questi album, poche righe ciascuno (almeno, spero di contenermi). Si tratta soprattutto di raccolte e ristampe, mi spiace se a volte so un po' di muffa ma di roba attualissima ho ascoltato proprio poco.
Per ragioni di comodità, procedo a ritroso: da quelli usciti a fine 2011, ad un disco di fine dicembre 2010 che ho amato molto e che per me rientra a diritto nelle uscite di gennaio.

Kate Bush: 50 Words For Snow

Per il suo secondo album di inediti in 18 anni (il precedente era stato Aerial nel 2005, e prima ancora The Red Shoes nel 1993), Kate Bush sceglie di proporci 7 brani lunghi, accomunati da un legame con la neve, anzi, come dice la stessa autrice, "appoggiati su uno sfondo di neve che cade". È un disco invernale ma certo non "natalizio", che si ammanta del fascino di un panorama in bianco e nero, lentamente e silenziosamente coperto dal manto bianco, ma certo non "freddo". La Bush inanella una dopo l'altra sette composizioni ammalianti, dense ma ricche di spazi, caratterizzate da una crescita lenta ma ben sviluppata, e impreziosite da una voce che a 53 anni non conosce incrinature e dai dettagli lasciati qua e là con sapienza dal manipolo di musicisti di valore che la accompagnano. Palma d'oro per la title track, una specie di scherzo teatrale, dove vengono snocciolati 50 nomi per la neve (di cui parte si sospetta inventati), e per Snowed in at Wheeler Street, efficace duetto con Elton John tra due amanti costretti alla separazione.

The Fall: Ersatz GB

Cosa dire del ventottesimo (o ventinovesimo? i pareri discordano...) album di studio dei Fall? Premesso che qualsiasi disco della band di Mark E. Smith, anche il peggiore, è sempre un disco degno di essere ascoltato, e aggiunto che questo non è per nulla il peggiore, sono tentato di dirvi solo che dovreste ascoltarlo, così come tutti gli altri precedenti e probabilmente quelli che seguiranno. Anzi, vi dirò proprio e soltanto questo.
La formazione è la stessa di Your Future Our Clutter (2010) e Imperial Wax Solvent (2009), un primato di longevità per i Fall. Anche la ricetta è la medesima dei due predecessori: rock di stampo assortito, su solidi giri di basso e con la solita, inconcepibile voce ubriaca di Smith a narrare storie strampalate.

Throwing Muses: Anthology

La prima raccolta retrospettiva dei Throwing Muses arriva in coincidenza con il 25ennale del primo album della band della 4AD. Non c'è molto da dire sulla band di Tanya Donnelly e Kristin Hersch che non sia già storia: 8 album di cui l'ultimo nell'ormai lontano 2003, sconfinamenti della Donnelly nelle Breeders e nei Belly (due ottimi side project), una sezione ritmica interessante nelle mani di Dave Narcizo e un songwriting difficilmente inquadrabile se non nella tradizione post punk femminile (Slits, Raincoats), dalla quale comunque si discosta in modo originale. Il doppio CD si giova di una bella edizione cartonata, e di una selezione accurata da parte della band, che in due dischi presenta una scelta di brani dagli album (CD1) ed una raccolta di canzoni che altrimenti sarebbero state disponibili solo in singoli, EP o colonne sonore (CD2). Non è un "greatest hits": mancano alcuni successi, anzi a volte sono stati privilegiati brani meno noti ma evidentemente più cari alla band. Dire che è una bella raccolta è poco. Io l'ho comprato e me lo sono spupazzato un bel po'.

Sixteen Horsepower: Yours, Truly

Sono passati 6 anni dallo scioglimento ufficiale della band di David Eugene Edwards e soci, e 9 anni dal loro ultimo album di studio. Sembra dunque tardiva questa antologia, ma il fatto che il nostro sia ancora in giro con gli splendidi Wovenhand ne fa una scelta dopotutto tempestiva.
La logica applicata per selezionare la compilation è a un tempo simile e diversa da quella del doppio dei Throwing Muses. Il secondo disco è anche qui dedicato agli inediti, che in questo caso sono spesso versioni alternative. Il primo è stato affidato non alle preferenze dei membri della band, ma a quelle del pubblico, che è stato invitato a votare i propri brani preferiti. Ne è uscita una raccolta assassina (per quanto riguarda il primo disco), che è per una volta un vero "best of", ma rappresenta ovviamente un elemento inutile per chiunque possieda la discografia completa. Il secondo disco è interessante, e molto goloso per i fan, ma non all'altezza del primo. Un oggetto un po' strano, nobilitato soprattutto dall'eccellente realizzazione grafica.

Tom Waits: Bad As Me

Il buon vecchio Tom è tornato con un disco di inediti dopo ben 7 anni di silenzio (Real Gone era datato 2004) e una raccoltona in tre CD nel mezzo che aveva quasi fatto temere un ritiro.
L'album è godibile, quasi orecchiabile in confronto alle prove del Waits "seconda maniera".
Una raccolta di belle canzoni che non aggiunge nulla di importante a quanto sappiamo già del "cantautore di Pomona", ma che rinfranca i fan che iniziavano a sentirsi orfani.
Si viaggia tra ballate oscure, momenti di ubriachezza ritmica, crooning malinconico e veloci passaggi all'inferno: gli ingredienti di casa Waits sono serviti in tavola con la perizia di un grande chef.

Mick Harvey: Sketches From The Book Of The Dead

Harvey è noto ai più come (ex) chitarrista dei Bad Seeds di Nick Cave. In realtà ha avuto una carriera ben più complessa, anche se vissuta in buona parte all'ombra del Re Inchiostro: chitarrista dei Boys Next Door, poi dei Birthday Party, infine dei Bad Seeds, ha accompagnato il compagno più famoso per la bellezza di 36 anni (dal 1973 al 2009).
Nel frattempo ha prestato la propria opera anche nei Crime And The City Solutions, e si è pure levato lo sfizio di una carriera solista: quattro dischi a suo nome fino ad ora, i primi due dedicati a reinterpretazioni delle canzoni di Serge Gainsbourg, altri due a cover di vari altri artisti, fatta eccezione per sole 4 canzoni originali. Questo quinto disco è dunque il primo vero album di Mick Harvey, se così vogliamo dire. Costato quattro anni di gestazione, l'album è un concept su un argomento difficile ma caro ad un certo pubblico: la dipartita da questo mondo. Musicalmente il disco è caratterizzato da ritmi lenti, sonorità prevalentemente acustiche e uno stile in generale più intimo di quello tipico degli altri album di Harvey. Non ho gridato al miracolo per le canzoni, che fanno sentire una certa mancanza di originalità, ma il disco nell'insieme è apprezzabile e per qualche motivo mi è caro. Sarà per il primo brano, dedicato a Rowland S. Howard, che da solo vale l'intero CD.

Big Sexy Noise: Trust The Witch

Il secondo capitolo della band capitanata da Lydia Lunch conferma quanto espresso nel primo album, e ne rappresenta se possibile una versione ancora più radicale.
Noise, no wave, hardcore, garage, sono tutte etichette che si potrebbero spendere per descrivere ciò che semplicemente è la fusione di rabbia ed erotismo, ossia cià che da sempre predica la strega evocata dal titolo.
Una dimostrazione di energia e di resistenza allo scorrere del tempo che fa quasi impressione.
Assieme alla ristampa del classico 13.13 ad opera de Le Son Du Maquis, è stato per me uno dei titoli imprenscindibili del 2011.

The Raincoats: Odyshape

Da quanto tempo mancava una ristampa di questo classico del 1981? Almeno 18 anni, a quanto riporta Discogs, e ci credo senza problemi visto che non ne avevo mai visto una copia in circolazione.
Come sempre quando parlo di ristampe, ho qui la scelta tra rievocare la storia dell'album e soprassedere con la considerazione che esiste abbondante materiale in rete per chi volesse approfondire.
Scelgo per una volta la seconda opzione, limitandomi a dire che l'anarchia schizoide di quest'album è delizia per le mie orecchie.
Nota di merito per l'edizione, sobriamente filologica, custodia in cartone con libretto ben fatto.

Radiohead: The King Of Limbs

Se ne è parlato così tanto che al momento avevo evitato di aggiungere le mie modeste impressioni. A distanza di molti mesi, posso dire che confermo l'idea che sia un passo falso.
Avevo ascoltato In Rainbows in rotazione continua (pur con una iniziale diffidenza). Questo invece non è riuscito a entrarmi in testa ne' a farsi amare.
I motivi sono più o meno quelli detti da tutti: poca unitarietà, forse troppi esperimenti mal coniugati tra loro. Le otto composizioni sono tutte interessanti e al di sopra della media di quasi qualsiasi band in attività, ma questo si può dire anche per qualunque b-side inclusa nei loro singoli.
Questo non sembra un album, tutto qua. Tra qualche anno lo ascolteremo con nostalgia.

Oceansize: Self preserved while the bodies float up
Un titolo che nonostante gli sforzi non ho ancora imparato. Eppure il disco l'ho ascoltato molto. Uscito a dicembre 2010, ho iniziato ad ascoltarlo i primi di gennaio in un viaggio in treno. Al primo impatto mi sono detto che si trattava di un capitolo decisamente interessante nello sviluppo della loro discografia, un passo difficile ma fatto nella giusta direzione. Poi ho scoperto che gli Oceansize si erano sciolti nel darlo alle stampe, e ci sono rimasto male: il discorso dello "sviluppo" si ferma qui. Peccato, perchè pur essendo potenzialmente insidioso modificarsi all'interno del proprio stesso elemento - la complessità della proposta e l'originalità delle loro composizioni fanno sì che queste rischino sempre di avvitarsi su se' stesse, come era accaduto parzialmente nel pur bello Everyone Into Position - qui alla band era riuscito il miracolo di innovarsi restando se' stessi. Non semplicemente "il quarto disco degli Oceansize", dunque, ma una raccolta di brani coraggiosi, di musica con mille rimandi ma senza riferimenti espliciti o agganci facili. L'epitaffio di una band che vanta innumerevoli tentativi (falliti) di imitazione.

Postilla: quelli che non mi sono proprio andati giù.

1. Un sincero fanculo ai Rammstein che hanno pensato bene di partorire una inutilissima raccolta (con inedito, naturalmente) in non so quante versioni a prezzi letteralmente incredibili. La carriera degli allegri cattivoni teutonici è in fase calante e questa ne è solo una conferma.
2. Mi sono sorbito un paio di volte l'album di James Blake cercando di capire cosa ci sentissero tutti di nuovo e di entusiasmante, ma non ho trovato ne' novità ne' emozioni. Un esercizio di stile, anzi, piuttosto stantìo.
3. Mi ha deluso il nuovo album di Gary Numan, a quanto pare fatto di materiale scartato da incisioni precedenti - e non me ne sorprendo.
4. Non dico nulla sull'album di Lou Reed e Metallica per non aggiungermi inutilmente al coro degli scontenti. Come disco di Reed non è male. Cosa ci facciano i Metallica non si sa.
5. Sonno profondo, ma proprio profondissimo, sul versante italiano: mi ha annoiato anche l'album di Dente, che al quarto giro è sempre se' stesso ma inizia a stancarmi, mentre ho decisamente aborrito quella bruttura sonora che è Il sorprendente album d'esordio dei Cani (titolo carino, va detto). Cito questi due tanto per fare due esempi ma potrei proseguire. Mi pare che l'inseguimento di mode e tendenze stia alla fine ammazzando la pur fievole ventata di novità che c'era stata negli ultimi anni. Che poi in Italia esca anche qualche bel disco, vabbè, lo sappiamo: succede anche nelle peggiori famiglie. (PS: mi si chiede qualche esempio, eccoli qua: Zen Circus, sulla fiducia il Teatro degli Orrori, e nonostante tutto anche i Verdena.)