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22 settembre 2011

Ritorni e cambiamenti dai '90 (capitolo 1)

Gli anni '90: territorio complesso e variegato, il decennio in cui tutto si è mescolato, in cui i gusti del pubblico sono mutati drammaticamente, in cui fuori dagli ambita metal e dance l'unica vera novità (almeno a livello di look e attitudine) è stato il grunge, un non-genere che si riappropriava degli slogan del punk trasformandoli in qualcosa di ancora più serio. Le band degli anni '90 hanno fatto strane parabole. In questi giorni c'è un profluvio di uscite da parte di formazioni con vent'anni di storia alle spalle. Mi ci immergo un po' e cerco di darne conto.

Dream Theater: A Dramatic Turn Of Events.

Questo è uno dei gruppi più attivi nel genere prog-metal, di cui sono, tra luci e ombre, tra gli esponenti più noti al pubblico dei non specialisti. Il primo album è del 1989, ma la consacrazione è stata raggiunta nel 1992 con Images And Words. A pieno diritto si tratta di un gruppo "anni '90", essendo quello anche il decennio della maggiore popolarità della band e delle prove di studio più convincenti. Sono stati prolificissimi: A Dramatic Turn Of Events è l'undicesimo disco di studio, con una media di un album ogni due anni (più 5 live, un EP e una raccolta).

Una quantità non sempre associata alla necessaria qualità. Dotati di una tecnica eccellente e indiscutibile, i DT non sono riusciti nell'arduo compito di suonare sempre musicalmente interessanti e di rispettare gli intenti che erano legati al nome della band.

Dopo il clamoroso abbandono da parte del membro fondatore, nonchè leader carismatico, Mike Portnoy, e la travagliata ricerca del sostituto, molti si aspettavano una sorta di nuova vita per la band. Niente di più falso: questo disco suona esattamente come una stanca riproposizione dei medesimi elementi dei tre noiosissimi album precedenti. Non fatevi ingannare dai primi due minuti del primo brano, che aveva fatto ben sperare i fan. Non appena sentirete entrare la voce di James "Ciccio" LaBrie, vi prenderà un torpore in stile nonno in sedia a dondolo col gatto in braccio. Ribadisco: tecnica ineccepibile, trame intricate, tutti gli ingredienti che fanno di una band come questa pane per i denti di impiegati di banca con sogni di plastica. Ma pochissima fantasia, linee vocali da schiaffi, pochissima anima e soprattutto una vocazione circense che ha proprio stufato. Bocciatissimo.


Opeth: Heritage

Una band dal seguito molto ampio, pur con la strana commistione di generi che la caratterizza. Partita nel 1995 con un album di Death Metal dai toni molto oscuri e quasi canonico per il genere, la band ha inserito via via elementi sempre più prog rock, caratterizzando la propria musica con partiture complesse, con tipici scambi tra cattivissimi riff veloci e ammalianti parti melodiche, e con la caratteristica alternanza di growl e voce pulita (e intensa) da parte del fondatore e leader Mikael Åkerfeldt.

La band fino al 2003 è stata incredibilmente prolifica: quasi un album all'anno. Da allora, gli Opeth hanno molto dilazionato le uscite, sfornando solo un paio di dischi, puntualmente discussi dai fan per le scelte stilistiche, ma di qualità assoluta indiscutibile. Ora, il decimo album di studio Heritage sembra voler segnare un punto di svolta importante per la band. Il disco non reca quasi tracce di metal, Åkerfeldt non accenna neppure per un istante a darsi al growl, le influenze più evidenti sono King Crimson e Genesis, il suono è decisamente anni '70 tra organi hammond, flauti, chitarre a 12 corde e pelli accordate con una morbidezza che è inusuale per un gruppo seguito da gente con le borchie ai polsi e i satanassi sulle t-shirt.

È un bell'album, rilassante, suonato con perizia e musicalmente vario, nonostante l'appiattimento su un sound che non riserva certo sorprese. Potrebbe far storcere il naso a molti fan della prima ora, ma una cosa è certa: nessuno può affermare che questa band riposi sui propri allori.

15 ottobre 2008

Edizioni "speciali"... ma per chi?

Aumenta, da qualche anno a questa parte, il numero degli album che vengono pubblicati anche in versione "special edition". Ma quante volte queste edizioni sono davvero "special"?

Me lo domando spesso, e in genere mi rispondo che spendere di più - anche 10 euro in più - per avere qualche bonus risicata è un bel modo di farsi prendere per il sedere, e di conseguenza porto alla cassa la versione normale.

A volte però si verifica un fenomeno che definire orrendo è poco: l'edizione normale sparisce dagli scaffali (magari va "out of print" e scivola nel limbo) mentre si trova ovunque la sola versione "special". La quale costa magari una cifra assurda, bloccando ogni fremito di concupiscenza nei confronti dell'agognato titolo.

Faccio un esempio. Sto cercando di completare, con molta circospezione (leggi: cercando di non spendere un capitale) la discografia degli Opeth.
In questo senso, è stata benvenuta l'edizione giapponese in mini-cofanetto che ha raggruppato i primi tre album. Scovata in giro a meno di 30 euro: un affare.
Anche per i successivi Blackwater Park, Deliverance e Damnation ho avuto una certa fortuna: si trovano in giro a prezzo speciale da qualche tempo, e cercando con un minimo di pazienza li ho portati via a 6.90 ciascuno.

Il discorso si è complicato con Still Life. Pubblicato prima come disco singolo, e poi in edizione doppia, è ormai praticamente introvabile nella prima versione. Pare si riesca solo ad ordinarlo; proverò.
Il problema dell'edizione "speciale" è che non offre praticamente nulla per un prezzo più che doppio: contiene una inutile (almeno a mio modo di vedere) versione in audio 5.1 dell'intero album, più un brano dal vivo. Un po' poco per giusticare la differenza di prezzo, non credete?
Analogo discorso per il ben più recente Ghost Reveries: sparito il CD regolare, mentre ho difficoltosamente rintracciato un negozio che ha in scaffale la versione doppia, con DVD 5.1. Naturalmente resterà dov'è. Anche perchè avere una edizione cartonata larga due centimetri, cje ti prende via spazio inutilemente, mi dà anche un po' di fastidio. E poi un disco con un aspetto speciale deve anche esserlo. E' una questione etica, mi viene da dire.
Ma il bello è che sta seguendo la stessa sorte addirittura il recentissimo Watershed (2007), del quale ormai si trova solo la versione doppia. Fortuna che l'ho arraffato nel breve periodo in cui è stato disponibile in special price a 9.90, prima di dileguarsi.

Sembra strano che in un periodo in cui le vendite di dischi crollano vertiginosamente, il mercato risponda con una politica che, in sostanza, alza i prezzi anche sui titoli usciti da qualche anno. Evidentemente in qualche super ufficio ai piani alti di qualche mega grattacielo, qualche super manager pensa di poter salvare la baracca (e la preziosa sedia in pelle umana sulla quale tiene posato il prezioso deretano), continuando a spremere quei pochi appassionati che ancora spendono parte del proprio introito (parte sempre più esigua, ahimè) per qualche CD.
Mi sa che hanno sbagliato i calcoli.