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9 giugno 2013

Alice and the Devil

Superato il trauma della "sostituzione impossibile" del deceduto Layne Staley col nuovo cantante William DuVall, concretizzatasi quattro anni fa con la pubblicazione dell'ottimo Black Gives Way To Blue, gli Alice In Chains tornano con un nuovo album di studio.

Le dodici tracce di The Devil Put Dinosaurs Here spaziano in direzioni diverse, ma come nel lavoro precedente si mantengono nel solco della tradizione sonora della band, il cui marchio di fabbrica si conferma essere a questo punto nient'altro che la visione musicale del chitarrista - nonchè autore di tutte le tracce - Jerry Cantrell.

Il disco si apre benissimo: Hollow è una di quelle canzoni senza tempo che potrebbero essere nate all'epoca di Dirt, un'aggressione di chitarre sludge che fonde, in una ricetta ormai nota ai fan, lo stile dei vecchi Black Sabbath con i vocalismi grunge più incattiviti. Lo stesso si può dire delle successive Pretty Done (che aggiunge una marcata venatura psichedelica) e Stone, quest'ultima contraddistinta dall'alternanza furbesca di aggressività e distensione, un meccanismo anche questo già classico. La quarta traccia Voices rischiara la scena e si rivela per uno di quei gioielli alla AiC in cui chitarre acustiche ed elettriche si intrecciano in una sorta di ballata dai toni più positivi.

Per dare la cifra del disco basterebbe fermarsi qui - e infatti mi fermo per non risultare inutilmente prolisso - perchè le successive 8 tracce non fanno che ripetere i medesimi schemi, con una menzione d'onore per la splendida Phantom Limb, una lunga cavalcata cupa e ben degna di entrare a far parte del repertorio della band.

L'album soffre però di alcuni problemi piuttosto evidenti. Da un lato, non c'è alcuna traccia di innovazione, per cui ci si trova davanti a composizioni di buon livello, alcune anche ottime, ma prive di qualsiasi sorpresa, al punto che tra qualche tempo si potrebbe non ricordare più da quale album provengano. Dall'altro, l'album dura la bellezza di 67 minuti, con durate medie superiori ai 5 minuti, non sempre giustificabili con necessità compositive: qualche taglio qua e là ci starebbe, sia nel minutaggio delle singole tracce, sia nella scaletta, che poteva magari avvantaggiarsi di una riduzione a dieci brani. E infine, appunto, la scaletta stessa: l'ordine delle canzoni mi lascia un po' perplesso, alcuni passaggi inchiodano un po' la scorrevolezza dell'ascolto, vedi ad esempio proprio il brusco passaggio al panorama acustico e solare della quarta traccia dopo le tre bordate iniziali, elettriche e oscure.

Nonostante la più che piena sufficienza, e alcuni picchi notevoli, non posso nascondere una mezza delusione, visto che con le potenzialità sul campo sarebbe lecito aspettarsi da questa band un album vicino alla perfezione.

26 ottobre 2009

Alice In Chains back in blue

Quando gli Alice In Chains hanno annunciato, qualche tempo fa, la pubblicazione di un nuovo album, la reazione da parte dei fan di una delle più grandi band degli anni '90 non era stata esattamente positiva.

E' intuitivo quanto sia dura riproporsi utilizzando lo stesso nome dopo la morte del proprio cantante. Lo sanno ad esempio i Queen, che hanno realizzato un flop spaventoso con l'ultimo disco con Paul Rodgers. E hanno certamente avuto qualche timore, a suo tempo, anche gli AC/DC: soltanto col senno di poi possiamo affermare che la scommessa di Back In Black, che giocava tra l'altro in modo un po' discutibile sul ritorno listato a lutto, si tradusse nel loro successo più grande.

La band di Seattle si trovava addosso anche il rapporto ambiguo di Layne Staley con la morte, citata spesso nei testi della band e tema dominante di tutta la scena grunge dell'epoca. Come tornare dopo 14 anni (l'ultimo album con Staley, l'omonimo Alice In Chains, uscì nel 1995) senza snaturarsi e riuscendo a trovare il supporto di una fan-base certamente indignata?

Ok, Jerry Cantrell e soci ce l'hanno fatta. Il disco è bellissimo, e a momenti riesce anche a farmi dimenticare di star lì a fare confronti. Che sono inevitabili, naturalmente; ma il chitarrista, da sempre autore di tutti i brani del gruppo, è riuscito in qualche modo a far rivivere la magia dei vecchi lavori utilizzando la stessa formula di sempre: riparte dal disco precedente ma aggiunge e sottrae, creando qualcosa di mai sentito, pur con la messe incredibile di rimandi che lascio a voi indagare nei dettagli.

Il disco si apre con All Secrets Known, un pezzo che va sul sicuro riproponendo un classico sound "alla A.i.C", ma con idee armoniche e melodiche non scopiazzate. Si avverte subito che William DuVall, il nuovo cantante, dovrà faticare non poco per cercare una propria personalità. A momenti sembra un imitatore di Staley, e questa è l'accusa che gli è stata mossa da più parti. Dissento. Va ricordato che entrambi hanno alla fin fine affrontato i pezzi di Cantrell, il quale le canzoni le scrive in questo modo. E infatti è proprio il lavoro di Cantrell come seconda voce quello che definisce stilisticamente il cantato di questa band: a mio modo di vedere DuVall ne esce più che bene sulla base di questo ragionamento.
Segue Check My Brain, sulla stessa falsariga ma con un refrain molto più accattivante, non per nulla la canzone è stat scelta come secondo singolo.
Last Of My Kind schiaccia l'acceleratore sul versante metal, ricordando quante band degli anni '00 devono parte del proprio sound proprio a questi signori. I Black Label Society di Zakk Wylde sono i primi che mi vengono in mente.
Alla quarta traccia, con Your Decision, c'è il primo momento di rilassamento dal ritmo sostenuto delle prime tre canzoni. Grande ballata nello stile del mai abbastanza lodato ep Jar Of Flies, e sfodera anche un ritornello memorabile dal quale è difficile liberarsi.
A Looking In View gioca invece nei territori di Dirt, con un riff teutonico a martello, un gran lavoro di chitarre, un eccellente intreccio tra le voci di Cantrell e DuVall. Primo singolo estratto dall'album.
When The Sun Rose Again è il gioiellino inaspettato. Percussioni lignee e un gran lavoro di composizione di Cantrell, che gioca sugli accenti producendo un tempo complesso che sembra dispari ma non lo è. Bei break, cambi interessanti, uno dei pezzi migliori del disco.
Acid Bubble è la canzone che mi fa pensare di più a Tripod (come i fan chiamano l'ultimo album con Staley). Un pezzo oscuro e intriso d'angoscia, sostenuto da una chitarra lancinante. A metà il brano s'incattivisce in modo inatteso con un riff di scuola bastarda, di grandissimo impatto.
Da qui in poi però le tenebre che avvolgo i primi sette pezzi si diradano e fuoriesce qualche timido raggio di sole.
Lesson Learned è infatti un hard rock magistrale, dalle sonorità più ottimiste.
Take Her Out prosegue nello stesso stile ma con una riuscita forse inferiore, mi pare il pezzo meno interessante dell'album.
Private Hell è invece una canzone riflessiva splendidamente composta. Bello il testo e notevole, qui come altrove, l'interpretazione di DuVall.
Si approda all'ultima traccia con Black Gives Way To Blue, obbligatoria (?) chiusura lenta, con l'ospitata di Elton John al piano. Un brano che scarseggia in originalità, avrei preferito qualcosa di più coraggioso per la chiusura di un disco così ben riuscito.

E a questo punto, non mi resta che comprare il biglietto per il concerto del 2 dicembre. Vi farò sapere.