19 dicembre 2010

Farewell

Don Van Vliet
15 gennaio 1941 – 17 Dicembre 2010

(fotogramma tratto da Some YoYo Stuff di Anton Corbijn, 1993
http://www.ubu.com/film/corbijn.html)

8 dicembre 2010

Strategies Against Architecture IV

Il primo Strategies Against Architecture fu dato alle stampe dagli Einstürzende Neubauten nel 1984, come raccolta di B-sides e live tracks rimaste a margine della discografia del primo periodo della band.

I due capitoli successivi, del 1991 e del 2001, hanno trasformato la serie in una restrospettiva antologica che copre di volta in volta i periodi intercorsi tra una raccolta e l'altra, affiancando live e B-sides ai brani più significativi tratti dagli album di studio. Non proprio un "best of", ma piuttosto una carrellata che può fungere anche da introduzione al lavoro più regolare della band.

Questo quarto elemento delle "strategie contro l'architettura" (un nome che si riallaccia a quello della band, che in italiano suonerebbe come "nuovi edifici che collassano") si inserisce in questo solco, proponendo brani che seguono il percorso del gruppo berlinese nel periodo 2002-2010, tra versioni di studio, mix alternativi, versioni pubblicate solo sui singoli e così via.

La doppia raccolta esce per la Mute Records, nonostante la band abbia sciolto il contratto con l'etichetta dopo l'uscita di Silence is Sexy: forse un obbligo contrattuale li obbliga a questa scelta, o forse la strada dell'indipendenza è difficile da seguire per questo tipo di uscita, come se le compilation fossero un oggetto più facile da gestire per una label più strutturata come può essere la Mute.

I due CD coprono un periodo che è stato molto travagliato per il gruppo, alla ricerca nell'ultimo decennio della propria nuova identità, fatta di riflessività e sperimentazioni sonore sempre più lontane dal chiassoso rumorismo industriale che l'ha resa famosa negli anni '80. Ne esce un affresco complesso, anche un po' schizofrenico, non sempre a fuoco ma ciò nonostante interessantissimo. Blixa Bargeld e soci hanno tentato strade nuove, a volte coraggiose, che li hanno un po' allontanati dal loro pubblico e che faticano ormai ad essere imbrigliate sotto una etichetta di genere.

Per gli amanti della band si tratta come al solito di una occasione per mettere le mani su tracce altrimenti difficili da reperire; per tutti gli altri può essere un'esperienza rivelatoria, sebbene l'ascolto risulti a tratti difficoltoso, anche per la mancanza di coesione di cui soffre un po' la materia proposta.

In ogni caso, va apprezzato il coraggio del collettivo ma anche la sontuosa edizione, caratteristica alla quale la Mute ci ha un po' abituato ma che non si può fare a meno di ritrovare sempre con piacere.

5 dicembre 2010

The Influence of the AoN

"The Art of Noise is paranoid" (dal testo di Something Always Happens).

La storia della mia passione smodata per gli AoN inizia da qualche parte tra il 1985 e il 1986, a casa di un amico che aveva appena scoperto il maxi single di Moments in Love, e subito a seguire l'album Who's Afraid (of the Art of Noise)?

Ripercorrere in poche righe la storia di questo progetto ambizioso e a tratti incredibile è difficile, perchè al di là dei dati biografici è necessario ricostruire il "prima" e il "dopo" AoN, una differenza che per i più giovani può essere arduo afferrare.

Negli anni '70 la musica elettronica era dominata dall'influenza di Kraftwerk e Tangerine Dream. Era il dominio assoluto dei sintetizzatori, dei beat minimali e dei primi sequencer, una mescolanza di fantascienza e atmosfere cosmiche, qualcosa che aveva a che fare con i viaggi nello spazio ed una visione del futuro tra utopia e distopia: Asimov ma anche l'incubo atomico tradotti su vinile.
Nei primi '80 il pop assimilò queste tendenze fondendole con la tradizione punk, dando vita al "synth pop": semplici melodie di sintetizzatore sovrapposte a fragili schemi basso/batteria/chitarra. Una formula dotata di grande fascino ma velocemente abusata, tanto che tra il 1980 e il 1983 si era già trascinata sul declivio di un declino imminente.

Ma nei primi anni '80 una dirompente innovazione tecnica si stava affacciando nel mondo della musica: il campionamento. Era una tecnologia costosissima e ancora dai grandi limiti. Pochi poterono iniziare a sperimentarla, ed erano in genere personaggi già dentro l'establishment musicale e con una certa disponibilità di mezzi. Uno tra questi fu ad esempio Peter Gabriel, che iniziò ad utilizzare i campionatori dal terzo album omonimo. Ma si trattava di musica ancora elitaria, molto concettuale, mescolata con influenze world e ancora dallo scarso potenziale pop (fino alla svolta di So, ma quella è già un'altra storia).

Trevor Horn (già produttore e musicista, vedi Buggles e Yes) decise invece di fondare qualcosa di totalmente nuovo. Raggruppati i musicisti Anne Dudley, JJ Jeczalik, Gary Langan e il giornalista musicale Paul Morley, diede vita ad un progetto che mescolava in modo inedito musica classica, influenze futuriste e un utilizzo aggressivo del Fairlight, all'epoca l'unico strumento in grado di gestire il campionamento in modo duttile e potente. Il nome "Art of Noise" fu mutuato dall'opera l'Arte dei rumori di Russolo, mentre l'immagine del gruppo, basata su maschere, sculture e citazioni dal sapore di inizio Novecento, erano opera di Morley, il cui apporto fu fondamentale ma limitato a questo aspetto.

Dopo il primo album le tensioni interne iniziavano già a sgretolare la coesione del gruppo: da un lato Horn e Morley puntavano molto sulla concettualità e sulla non-immagine, dall'altro Dudley, Langan e Jeczalik desideravano uscire allo scoperto come una vera band e ottenere anche riconoscimenti commerciali. La ebbe vinta il secondo gruppo, che mollò la ZTT di Horn e approdò alla China Records, con la quale pubblicò altri tre album prima di sciogliersi nel 1990. Seguì un profluvio di raccolte e collezioni di remix, fino a quando, negli ultimi anni del secolo ci fu una fugace riunione della band (escluso Jeczalik) con un album ispirato all'opera di Debussy.

L'importanza degli AoN potrebbe essere misurata sul numero di campionamenti che hanno a loro volta subìto. Il più noto è quello utilizzato dai Prodigy nel singolo Firestarter. Ma la loro influenza sulla musica degli anni '80 e '90 è ben più vasta e diffusa. L'intera scena "big beat" potrebbe essere considerata una rielaborazione di pezzi come Close (to the Edit), mentre l'approccio alla cover come momento di riappropriazione di una melodia in un contesto totalmente differente (Peter Gunn, Kiss) è una eredità ancora evidente nella produzione musicale degli anni '00.
La raccolta Influence appena sbarcata nei negozi non potrebbe dunque avere nome più appropriato.

L'edizione consta di 2 CD. Il primo è una sorta di vero e proprio best of, sebbene si discosti da quello già esistente per due ragioni: la scelta delle versioni che privilegia quelle finora inedite su CD (vedi i casi di Close (to the Edit), Legs, Paranoimia), e l'inserimento di 3 brani dall'ottimo album del 1999, che sebbene evidenzino la grossa frattura con lo stile del passato, dimostrano anche l'enorme potenzialità della nuova incarnazione della band. Il secondo disco consiste di unreleased experiments; contiene solo versioni totalmente inedite e qualche chicca sorprendente (un esempio su tutti: l'intera sequenza delle voci registrate da Camilla dalle quali furono estrapolate risate, "ehi" "yes" e cosa vià). Una vera e propria miniera per gli appassionati di questa band fondamentale per la storia del pop occidentale.

L'Arte è servita.

"The Art of Noise is paranoid. The Art of Noise is weird."

27 novembre 2010

Addio Sleazy

Chissà perchè, oggi m'era venuta l'idea di spulciare, artista per artista, il sito della Mute e nello specifico la Grey Area.
Alla pagina dedicata ai Throbbing Gristle mi aspettava una brutta sorpresa.

Volevo bene a Sleazy, soprattutto in quanto metà dei Coil, il mio primo passo nell'industrial grazie allo splendido Horse Rotorvator.

Ma Peter 'Sleazy' Christopherson non era solo uno dei Coil. Negli anni 70 era stato membro dell'agenzia di design Hipgnosis, alla quale si devono le copertine di Led Zeppelin, Pink Floyd, UFO, Alan Parsons Project e tanti altri. Fu il primo a fotografare i Sex Pistols e contribuì all'allestimento delle vetrine del negozio Sex di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood. Nel 1976, assieme a Cosey Fanni Tutti, Chris Carter e Genesis P-Orridge fondò i Throbbing Gristle e la Industrial Records, un'etichetta indipendente che letteralmente inventò un nuovo genere musicale. Nel 1981 Sleazy formò gli Psychic TV assieme a Genesis P-Orridge, ma dopo due album si unì al compagno Jhonn Balance per creare i Coil.

Dopo la morte di Balance nel 2004, Sleazy si era trasferito a Bangkok dove aveva continuato la sua attività artistica con diverse denominazioni, oltre a riprendere i contatti con i TG (con i quali stava preparando un nuovo progetto).

Se ne è andato nel sonno, il 24 novembre.

"Peter was a kind and beautiful soul. No words can express how much he will be missed."

9 novembre 2010

The Inevitable Past & The Future Forgotten

Già che ho appena parlato dei Black Heart Procession, segnalo volentieri anche l'uscita del nuovo album dei Three Mile Pilot. Il collegamento tra le due band è strettissimo: i BHP nacquero nel 1997 come side project dei TMP, ad opera del cantante Pall Jenkins e del tasterista Tobias Nathaniel. Nel frattempo, l'altra metà dei TMP (il bassista Zach Smith e il batterista Tom Zinser) ha dato vita ai Pinback, che non sono esattamente la mia "cup of tea" ma hanno suscitato a loro volta un certo interesse.

The Inevitable Past Is The Future Forgotten è il quarto album a nome Three Mile Pilot ed il primo a vedere la luce da 13 anni a questa parte. Il tempo trascorso si è fatto sentire, e le nuove esperienze musicali anche, cosicchè il disco, che pure affonda le radici nel precedente repertorio della band, spazia anche in territori inusuali per il quartetto così come lo si era lasciato ai tempi di Another Desert, Another Sea.

A me l'album è aggradato molto, più delle precedenti prove del quartetto, che pure sono a loro modo dei piccoli gioiellini alternative da riscoprire per chi fosse stato distratto all'epoca. Magari per qualcun altro sarà una delusione, visto che pur essendo un disco privo di qualsiasi compromesso, è anche il più accessibile della carriera del gruppo. Un po' una conseguenza delle esperienze vissute nel frattempo dai musicisti, ma non è un male, perchè si sentono le medesime vibrazioni dell'Inevitable Past, intatte e piuttosto intense, ma anche una pulsione verso quel Future che, essendo stato solo immaginato, non potrà che essere Forgotten.

7 novembre 2010

Joy Division plus minus

E' in arrivo l'ennesima operazione di vampirizzazione del nome Joy Division: la Rhino ha annunciato l'imminente pubblicazione di un lussuoso boxset che in 10 vinili da 7" raccoglie tutti i singoli pubblicati dalla band, oltre ad altri che sono stati praticamente "immaginati" per l'occasione ma che nella realtà storica non furono mai pianificati ne' pubblicati dalla Factory.

Ora, senza nulla togliere alla bellezza dell'oggetto in se', e senza voler sminuire la passione dei collezionisti che si sentiranno vibrare qualcosa dentro e non resisteranno all'acquisto di cotanta roba, sono veramente basito dal livello al quale si possa giungere pur di continuare a far quattrini senza sforzo. La tracklist è di soli 20 brani totali, nessun inedito è stato aggiunto (anche perchè di veramente inedito non resta praticamente nulla) , e l'unica cosa interessante (il nuovo artwork originale di Peter Saville) è disponibile solo nella edizione "Deluxe" limitata (e ovviamente già esaurita prima ancora di venire messa in vendita).

Se veramente amate la musica dei Joy Division, e desiderate ascoltare qualcosa che non avete mai ascoltato prima, puntate il vostro browser su questo indirizzo. Troverete pane per i vostri denti, garantito.

Black Heart Procession in the mix

E' diventata un po' una moda nell'ambiente indie, e così anche i Black Heart Procession danno alle stampe il loro primo album di remix.

Inutile dire che una band come i BHP potrebbe avere difficoltà a farsi accettare in questo formato dai propri fan, e infatti il disco oscilla un po' indeciso tra remix veri e propri, rielaborazioni e inediti dalla struttura aperta.

Il CD è strutturato come la somma di due EP (che però non sembrano esistere separatamente, io almeno non ne trovo traccia): Blood Bunny e Black Rabbit. Un totale di 8 canzoni in 40 minuti.

Il risultato non è del tutto malvagio, ma non si avvicina neppure lontanamente al valore degli album. Insomma, un'onesta chicca per i fan - ma non consiglierei a nessuno di andare alla scoperta di questa band partendo proprio da qui (se non li conoscete, ascoltate almeno Two e Three, potreste ringraziarmi).

Momento di picco: la versione di Freeze elaborata da Lee "Scratch" Perry, un accostamento che non avrei mai pensato di vedere realizzato in natura.

1 novembre 2010

Ristampe succose dai favolosi anni 80 (parte 4)

Propaganda: ovvero della grandezza e delle miserie della ZTT Records, ovvero dell'irruzione di Düsseldorf nella Londra degli anni '80, ovvero "all that we see or seem is but a dream within a dream", ovvero un solo disco per restare nella storia del pop.

In origine c'erano Ralf Dörper (dei Die Krupps), Andreas Thein e Susanne Freytag, che iniziarono a sperimentare un mix di industrial, pop e punk in suolo germanico. Vennero poi, dopo un trasvolo della band a Londra, gli innesti di Michael Mertens e Claudia Brücken. E venne Paul Morley, il giornalista-teorico che aveva fondato la ZTT assieme a Trevor Horn, e che vide nel quintetto (poi quartetto, dopo l'abbandono di Thein) un cavallo di razza sul quale puntare per l'etichetta da poco avviata.

E vennero infine i singoli, una sferzata di innovazione ed originalità nel panorama del pop targato 1984, che viveva un ormai inarrestabile paludamento. Dr. Mabuse, Duel, P-Machinery erano il risultato di un sonoro impatto tra le radici industriali della band e la produzione ipertrofica e levigante della ZTT. L'etichetta fece la fortuna della band ma ne decretò anche la rapida disgregazione, secondo uno schema che si rivelò purtroppo condiviso tra tutti i gruppi che avevano firmato per la label. Alla fine del tour che seguiva la pubblicazione del primo e unico album, il gruppo si incartò in una devastante controversia legale relativa al contratto firmato con Trevor Horn, e finì con lo sciogliersi.

A Secret Wish fu un album travagliato: Horn, all'epoca impegnata nel lancio dei Frankie Goes To Hollywood, non riuscì a produrlo per motivi di tempo, ma la pressione esercitata da Paul Morley (che nel frattempo aveva sposato Claudia Brücken) fece sì che se ne occupasse S. J. Lipson, tecnico di fiducia di Horn e abile manovratore di synth e sequencer (la band ebbe a disposizione il Fairlight degli Art of Noise) oltre che orchestratore delle numerose collaborazioni che arricchirono l'album come era nel più puro stile ZTT (appaiono Steve Howe e David Sylvian tra numerosi altri). Uscito su vinile nel 1985, il disco fu seguito da una edizione in CD che per l'epoca era una cosa decisamente rara. Il metodo della label non consentiva di accettare che l'edizione su compact disc fosse una semplice rimasterizzazione del master originale realizzato per il vinile: l'album fu dunque re-mixato (col risultato che diversi brani ebbero una durata decisamente differente) e masterizzato nuovamente in digitale.

Inutile dire che seguirono diverse versioni dei singoli, tracce aggiuntive nei maxi-single, oltre ad un intero album di versioni remixate (Wishful Thinking). Si iniziò anche a parlare di misteriose versioni alternative presenti negli archivi della ZTT...

Finalmente giunge una mastodontica ristampa in due CD che riporta alla luce questo grande classico riunendo le versioni dell'edizione analogica e quelle dell'edizione digitale, oltre a fornire sul secondo disco una grande quantità di B-sides, remix e soprattutto i 20 minuti di Do Well, prima versione dei pezzi dei Propaganda che all'epoca conobbe una edizione solo su cassetta.

Vi rimando all'apposita pagina su Discogs per tutti i dettagli da maniaci collezionisti.

24 ottobre 2010

Goodbye Ari

Scopro solo ora che mercoledì scorso (il 20 ottobre) se ne è andata Ari Up, a causa di una brutta malattia.

Nota soprattutto come cantante delle Slits, Ari è stata una delle più convincenti rappresentazioni di ciò che una donna può essere se decide di liberarsi dalle restrizioni sociali e di far saltare ogni convenzione di genere.

Dopo aver partecipato, giovanissima, al movimento punk della prima ora, ed aver pubblicato due album con le Slits, mollò tutto per andare a vivere nella giungla (Indonesia e Belize, per poi stabilirsi in Giamaica). E' stata un'appassionata sostenitrice della cultura rasta e soprattutto della vita naturale, oltre ad aver continuato a sperimentare la sua originale fusione di punk, reggae, dub e dancehall, pubblicando album fino a pochi anni fa.

La notizia della sua scomparsa è stata data dal sito di John Lydon, il quale molti anni fa sposò Nora, la madre di Ari.
In questi giorni Nina Hagen stava postando numerosi video di Ari sulla sua pagina di Facebook. Incuriosito, ho fatto una ricerca su Google e ho scoperto che non si trattava di un caso. Lo scrivo perchè ho passato due giorni a pensare quanto mi piaceva Ari guardando quei video, e poi ho scoperto che la mia era stata una commemorazione inconsapevole.

Qualche tempo fa avevo apprezzato un semplicissimo post della Discarica Emozionale: una carrellata di foto di Ari. Si intitola "un amore senza fine".

Da poco avevo letto la sua intervista in Totally Wired di Reynolds. Una delle sue risposte, in merito al primo periodo delle Slits, era la seguente: "Anche se nel comportamento ero questa scandalosa ragazza anarchica, la componente spirituale mi prese da subito." Credo che questa frase riassuma la sua esperienza e quanto ha saputo lasciarci.

Ma ripensandoci forse mi piace anche di più la frase di chiusura dell'intervista: "l'idea dell'essere donna nella dancehall è che non puoi imporle un cazzo!"

23 ottobre 2010

Uova Fatali

Due parole su questo blog.

Non c'è bisogno che vi spieghi di cosa tratta: musica, musica, musica. In grande preponderanza, sebbene la parola non mi piaccia molto, recensioni. Di dischi, a volte di libri o video, sempre più raramente di concerti (non perchè non ci vada ma perchè non ho tanta voglia di parlarne). Mi piacerebbe argomentare più spesso di copyright, mercato, e così via, ma l'argomento è complesso e richiede tempi di approfondimento non sempre concessi a chi ha anche un lavoro e altri progetti da portare avanti.

Scrivo queste due righe per chiarire un aspetto relativo alle date di pubblicazione dei post. Non considero questo blog un lavoro ne' una vetrina. Lo tratto come se fosse un diario delle mie cogitazioni sulla musica che ascolto. A causa di questa impostazione, non do molta importanza all'ordine di pubblicazione. Spesso inizio a scrivere di qualcosa in una certa data, poi interrompo la stesura, dimentico il post, giorni dopo lo ritrovo nella lista, butto giù altre due righe, lo abbandono ancora. Magari un mese dopo correggo due virgole, aggiungo una chiusura e lo pubblico. In genere, nel farlo lascio al post la data di quando ho iniziato la stesura. Qualcuno mi ha detto che è strano, addirittura che potrebbe non sembrare onesto.

Beh, posso anche capire, ma io non ci avevo mai pensato. E poi mi sa che - a causa di fenomeni nei quali non mi vorrei addentrare - ad alcuni inizi a sfuggire cosa sia un blog. Se io ho scritto una recensione sul disco degli Underworld il 28 di settembre, ma poi l'ho pubblicata oggi, qual'è la data interessante da un punto di vista del mio diario? A me sembra che sia quella in cui ho avuto voglia di parlare degli Underworld. Che a voi che la leggete sia stato infilato solo oggi il foglio sotto la porta della cameretta, a me pare ininfluente. Quelli sono pensieri del 28 settembre, più o meno.

In questi giorni sto riversando nel blog una ventina di articoli lasciati in sospeso. Li scrivevo ma non avevo voglia di metterli sotto la luce del web. Ora verranno fuori ognuno con la propria data, un po' alla volta. Buona lettura, se vi va.

13 ottobre 2010

Il dissenso di Jaz

Torno spesso ad occuparmi dei Killing Joke, e per un motivo assai semplice: poche band hanno saputo tenere un profilo così alto nell'arco di una carriera trentennale. A questo si potrebbe aggiungere che sono uno dei miei gruppi preferiti, ma di gruppi preferiti comincio ad averne decisamente troppi perché quest'etichetta abbia ancora un senso.

La storia dello "scherzo che uccide" parte nei primissimi anni '80, con un'infilata di album straordinari (obbligatorio almeno il primo disco omonimo), che sono storicamente assimilabili alla new wave ma musicalmente caratterizzati da un amalgama molto originale di punk rock, elettronica e ruvidezze quasi metal, nel quale si innestano i testi politicizzati e arrabbiati che resteranno il marchio di fabbrica del leader Jaz Coleman. Nel 1985 arriva anche il successo commerciale con Night Time, un disco lodato anche dalla critica sebbene molto più patinato e orecchiabile dei lavori precedenti. Segue poi una inevitabile decadenza, con album meno apprezzati ma ancora di tutto rispetto, tra i quali si stagliano dei picchi d'eccellenza quali il monumentale Extremities, Dirt & Various Repressed Emotions del 1990. Nel 1996 il progetto va in letargo, e vi resta fino al 2003, quando il marchio ritorna con un nuovo disco omonimo. Lo stile di quell'album è duro, arrabbiatissimo, attuale e anche stupefacente se si considera l'età anagrafica dei musicisti coinvolti. Il seguito Hosannas from the Basements of Hell del 2006 non faceva che confermare lo stato di grazia della band, che tra le altre cose si prendeva la soddisfazione di riappropriarsi dell'eredità lasciata ad una intera generazione di musicisti degli anni '90.

Poi veniva la scomparsa del bassista Paul Raven a scompaginare i piani e a dare un'apparente battuta d'arresto. Negli ultimi anni sembrava che i Killing Joke fossero dediti più che altro alla pubblicazione instancabile di ristampe e live, quasi a voler sfiancare i propri fan, anche i più irriducibili. Non mi aspettavo dunque che il 2010 vedesse la comparsa di un disco convincente come questo nuovo Absolute Dissent. Riunita addirittura la formazione originale (Jaz Coleman, il fedele Geordie alla chitarra, Youth al basso e Paul Ferguson alla batteria) è stato sfornato uno dei capitoli più compatti, militanti e assassini della storia trentennale del marchio KJ.

Il disco sembra quasi studiato per respingere gli ascoltatori meno pazienti. Pochissime concessioni alla melodia (che emergesolo in alcuni brani posti più avanti nella scaletta), batterie poderose, bassi sferraglianti e chitarre grattugianti e corrosive concorrono alla creazione di un muro sonoro ben poco amichevole, sul quale Coleman stende i suoi proclami anti imperialisti, con visioni apocalittiche dalle quali è difficili dissentire. Mentre il dissenso assoluto va al mondo che ci circonda, alla politica in tutte le sue forme, ad una umanità che prepara la propria auto distruzione.

Non fraintendetemi: non è questo, per forza, il compito della musica, e il sottoscritto non è abbastanza ingenuo da credere che dire queste cose in un album possa servire a qualcosa. Ma il grido feroce di Jaz Coleman è parte necessaria in un mondo che se le canta e se le suona senza guardare fuori dalla finestra di casa propria, e spesso nemmeno dentro casa propria.

Grinderman 2

Eccolo qua il secondo capitolo dell'arrotino, ossia il side project più anomalo della storia.

Cerchiamo di vederla dal punto di vista di chi non conosce i protagonisti. Un tale (Nick Cave) pubblica una valanga di album con una band (i Bad Seeds), che è composta da un cospicuo numero di membri (alcuni dei quali entrano ed escono). Ad un certo momento, prende una delle qualsiasi formazioni variabili della band medesima, anzi ne prende proprio i membri più fedeli, e decide che questa compagine ridotta costituisce un gruppo a se' stante (Grinderman). A questo punto pubblica un album con questo nome differente, sollevando la non trascurabile questione di come la prendano i membri residui che se ne restano a casa. Suona un po' strano, no?

La cosa più sorprendente in tutto questo è che la mutazione da Bad Seeds a Grinderman si è rivelata sostanziale oltre che formale. La band a quattro (Warren Ellis, Martyn Casey e Jim Sclavunos oltre a Nick Cave) sembra infatti possedere una freschezza ed un'immediatezza che parevano smarriti nei Bad Seeds degli ultimi anni.

Diviso recentemente tra la scrittura di romanzi (Buddy Munro), la composizione di colonne sonore (The Road) e l'abituale lavoro con la band principale, il vecchio Re Inchiostro ha dunque trovato il tempo anche di realizzare questo Grinderman 2. Il disco scorre via liscio liscio e conferma l'idea che i nostri vogliano riportare in vita lo spirito delle origini: quello più ruvido e diretto che pervadeva i Birthday Party e i primi Bad Seeds.

Restano dubbi sulla qualità delle composizioni: pur non scadendo mai in una clamorosa insufficienza, non sempre i brani valgono molto più della loro stessa confezione, e questa forse è una conseguenza inevitabile degli anni che passano per Nick & Co. come per tutti gli altri.

3 ottobre 2010

Black Mountain al terzo capitolo

I Black Mountain meritano una menzione d'onore per aver realizzato la classica missione impossibile. Hanno mescolato influenze assortite dagli anni '70, hanno usato solo strumentazione assolutamente "vintage" dell'epoca, hanno adottato un abbigliamento hippy in puro stile "peace & love", hanno puntato su cose davvero arcaiche come "psichedelia", "riff hard rock", "space rock", tutto questo senza sembrare pezzi da museo dal sentore di naftalina, ma anzi facendosi apprezzare a destra e a manca come genuina novità in questi anni '00 dall'identità evanescente.

Il terzo album giunge come conferma di un gruppo che ormai non ha nulla da dimostrare, anzi può permettersi di giocare con la propria formula sperimentando qualcosa di diverso. Abbandonati dunque - credo temporaneamente, ma questo si vedrà - i brani lunghi e strutturati, e accantonati i riff più hard e gli elementi più "estremi" del repertorio, nel nuovo Wilderness Heart i nostri sfoggiano l'anima più pop, con canzoni da tre minuti che delizieranno i nostalgici delle classifiche dei seventies, lasciando magari più freddi quelli come me che amavano i momenti più heavy e le cavalcate psichedeliche.

Si tratta senza dubbio di un disco godibile. Come già detto, non mi fa impazzire, ma si sente tanto mestiere ed una vena melodica non comune. È un tassello in quella che potrebbe diventare una storia anche molto lunga se la band saprà continuare a reinventarsi e non si farà spazzare via con la moda della strumentazione polverosa e delle foto virate sul rosso in stile "vecchie vacanze di papà e mammà", un filone che certamente diventerà stantio nel giro dei prossimi mesi.

28 settembre 2010

Barks from the Underworld

Io amo gli Underworld.
Questo disclaimer è d'obbligo quando ci si accinge a parlare di qualcosa su cui si rischia di essere poco obiettivi. Già tre anni fa avevo recensito Oblivion With Bells con una certa enfasi. Non vorrei che ora mi diceste che non vi avevo avvisato quando userò toni analoghi per il nuovo album.

Barking è un disco inaspettato. Prima di tutto, non avevo notato segnali dell'imminente uscita di nuovo materiale. Eppure un'occhiata sporadica al sito della band la butto sempre, anche solo per verificare le mutazioni del sito stesso. Secondo, la coloratissima copertina è decisamente una innovazione. Ci ho messo un po' a convincermi che si trattasse proprio degli stessi Underworld di Karl Hyde e Rick Smith. In terzo luogo, e qua sta la vera sorpresa, siamo di fronte ad una sterzata evidente dallo stile del precedente album.

Spieghiamoci meglio. Oblivion With Bells era un album nel quale avevo ritrovato quanto più avevo gradito dei primi Underworld: atmosfere quasi oniriche, un'elettronica fredda in superficie ma straordinariamente calda grazie all'uso estremamente particolare della voce. Un connubio raro, capace di creare uno stato di trance ipnotica: le parole sparpagliate su architetture frammentarie in modo da indurre stati d'animo sfuggenti ma profondi. Una specie di catarsi psichica, nella quale mi piace abbandonarmi come sotto l'effetto di una droga priva di effetti collaterali. Barking è invece un disco che presenti anche elementi decisamente più solari, con momenti che si potrebbero dire più convenzionali per un album dance, ma che conferma uno stile assolutamente unico e che centra l'obiettivo di offrire un ascolto più immediato ma anche la possibilità di approfondimenti successivi.

L'apertura è affidata a Bird 1, un pezzo che sfoggia subito una mescolanza di spensieratezza e nostalgia, due sensazioni che solo questa band riesce a fondere in modo così perfetto.
Con Always Loved A Film invece ci si getta in atmosfere molto più festose, sebbene stemperate continuamente da intermezzi di tono minore che non fanno altro che accentuare i ritorni dei refrain. Un elemento di questo brano che resterà costante nel disco è un approccio a tratti più "cantato" da parte di Hyde, scelta che porta alcuni pezzi a convertirsi quasi in canzoni, nonostante le strutture restino come da tradizione totalmente aperte.
L'evoluzione prosegue con Scribble, un inno alla gioia da dancefloor con synth poderosi e sonorità che per qualche motivo mi riportano alla mente le scorribande di Beacoup Fish.
La quarta traccia Hamburg Hotel interrompe l'escalation verso lidi danzerecci, proponendo un gioco di sequencer molto geeky, che si evolvono verso ritmiche complesse e stratificazioni di pad fino a quando un astruso giro di basso ribadisce la maestria del duo nel costruire architetture inaspettate e sorprendenti.
Grace si apre con uno dei più tipici recitati alla Hyde, per un brano che potrebbe venire diritto diritto dalle sessioni di Orblivion With Bells. "In the underground, in the underground there is not what I expected".
Stesso ambiente per la successiva Between Stars, fino a quando una sorta di ritornello atipico apre il pezzo trasformandolo in un inno involuto e sconcertato, qualcosa che non mi avrebbe stupito nella tracklist di Dubnobasswithmyheadman.
Diamond Jigsaw è forse la traccia più spiazzante del disco, un'allegra canzone pop nella quale pochi noteranno gli evidenti richiami alla fase pre-elettronica degli Underworld (quando i nostri non avevano ancora trovato l'alchimia perfetta dopo avere sciolto i Freur).
l'album si chiude con Moon in Water e Lousiana, due pezzi atipici e al tempo stesso molto Underworld. Nel primo una voce femminile recita un lungo monologo sulla luce della luna su sequencer di ispirazione ambient e guizzi electro, il secondo è una sorta di morbida ninna nanna basata sul solo piano e sulla voce di Hyde, che chiude degnamente un disco variegato e decisamente non abbaiato come invece lo strano titolo avrebbe potuto far pensare.

Una doverosa nota per i collezionisti: il DVD accluso all'edizione doppia contiene un video per ogni traccia dell'album, una chicca che vale la spesa. Pochi giorni dopo l'acquisto dell'album mi sono invece accorto dell'esistenza di una edizione maggiore, dotata anche di un grosso volume cartaceo e di un CD di remix. Maledizione.

18 settembre 2010

Un po' di metallerie di ritorno

Questo accidenti di The Final Frontier (quarto capitolo della saga degli Iron Maiden dal rientro di capitan Bruce Dickinson) è uno dei migliori esempi di quello che io chiamo la "peste delle recensioni".
Parte un recensore - probabilmente sordo o appassionato di bossa nova - che in anteprima assoluta dice che l'album è stupendo, "un ritorno in gran forma" o adddirittura "il disco migliore della band". Qualcuno copia questa scemenza in rete, la cosa si diffonde e ormai per tutti l'album diventa il più atteso dell'anno.
Seguono buoni feedback sulle riviste di settore, parole trionfali in bocca a negozianti che non ascoltano musica e chiacchiere da bar tra appassionati che però ancora devono ascoltare una sola nota.
Poi finalmente ascolti il disco e il bubbone esplode.
Si, perchè The Final Frontier è un disco moscio, stanco, privo di idee e soprattutto noioso come un documentario sullo svernamento delle talpe normanne. Se siete curiosi, ascoltate solo la prima traccia e non ci sarà altro da aggiungere.

Molto strano invece il caso del nuovo disco di Ozzy Osbourne. Come tutti sapete, il signore in questione è affetto da malattie nervose d'ogni genere, ha smesso di fare buoni dischi dall'89 e si è reso ridicolo agli occhi del mondo mettendo in piazza la propria terrificante famiglia in uno dei reality più seguiti della già orrenda storia della TV americana. Ciononostante, è ancora molto amato dai fan del metal, che ne rispettano lo status di padrino del genere grazie alla storica militanza nella più grande band di sempre (questa è una di quelle stupidaggini che puoi scrivere tranquillamente perchè nessuno può veramente contestarle), ossia gli immani Black Sabbath.
Scream
è, ovviamente, un tentativo di continuare a fare cassa prima che il buon vecchio Ozzy non si regga più in piedi. D'altronde, devono aver pensato alla casa discografica, anche Dio che pareva stesse ancora benone alla fin fine è morto. Ecco allora un album in cui su tutto prevale la produzione: la voce è talmente filtrata, corretta, auto-tunizzata ed effettata che potrebbe trattarsi di un qualsiasi imitatore (anche scarso); la chitarra (non più affidata al potentissimo Zakk Wylde) suona come una collezione di clichè dell'heavy metal; il livello medio di scrittura dei brani è decisamente mediocre. Eppure... per qualche ragione quest'album, laddove si abbia la ventura di giungere al terzo ascolto, ti entra nel cervello e vi si stabilisce comodamente, nel settore "dischi che mi stanno simpatici". Sarà che è un ottimo disco pop, prodotto come un disco pop da gente che evidentemente ci sa fare.

Gli Apocalyptica sono in giro da almeno 15 anni (il primo album è dell'ormai lontanissimo 1996) ma continuano ad aggregare consensi. D'altronde il meccanismo è semplice: per ogni metal kid deve arrivare prima o poi la fase in cui ci si rende conto che il metal discende dalla musica classica (anche se le cose non stanno proprio così, ma prima o poi lo si pensa), e quindi quando si scopre che qualcuno fa metal con i violoncelli, la curiosità si accende facilmente.
Per me che li seguo ormai da molti anni, i veri Apocalyptica sono quelli di Cult: musica strumentale originale, violoncelli usati sia come tali che come chitarre elettriche, batteria qua e là (soprattutto quando c'è un tale Dave Lombardo alle pelli, si ascolti questo pezzo su tutti), qualche cover giusto per gradire (parliamo di una band che ha esordito con un disco di sole cover dei Metallica).
Quando fanno canzoncine pseudo-metal ad uso e consumo della MTV generation mi fanno incazzare. The 7th Symphony è un bell'album se si considerano solo i pezzi strumentali (l'opener At the Gates of Manala, la possente 2010, la classicheggiante Beautiful, la straordinaria On the Rooftop with Quasimodo e anche le conclusive Sacra e Rage of Poseidon). Le canzoni purtroppo sono molto mediocri, e in particolare una (Broken Pieces) è atroce. Consiglio molto vivamente l'edizione deluxe che contiene due ottimi brani strumentali in più e un bel DVD acustico.

Perchè Zakk Wylde non suona nell'ultimo disco di Ozzy Osbourne? Proprio il principe delle tenebre in persona ha dichiarato che non c'è alcuna ragione musicale o personale, ma semplicemente non gli andava più che i suoi dischi suonassero così tanto come quelli dei Black Label Society. E in effetti la chitarra di Mr Wylde è talmente riconoscibile che la sovrapposizione era evidente, lasciamo stare poi gli inevitabili confronti qualitativi (qualsiasi album dei BLS è superiore a qualsiasi album di Ozzy successivo a No More Tears).
Order Of The Black arriva a ben 4 anni di distanza dal precedente Shot To Hell. Mai i nostri ci avevano messo tanto tempo a dare seguito ad un disco. Le ragioni ci saranno, ma quello che posso dirvi con certezza è che la formula si è ormai usurata e che forse sarebbe ora di un cambio di direzione. Se non conoscete nulla dei BLS, quest'album andrà benissimo e vi stordirà con la mostruosa tecnica del leader e con la potenza sonora di una band eccellente. Ma in caso contrario vi domanderete, esattamente come il sottoscritto, cosa farvene di un disco che suona esattamente come una compilation di tutti gli altri.

5 settembre 2010

O.Children


Nell'acquazzone di band che seguono il filone "neo wave" (l'etichetta è orrenda ma se ne avete di migliori suggerite pure) ogni tanto mi appassiono ad un album in particolare, senza neppure sapermene spiegare le motivazioni. Era successo col primo dei White Lies, quest'anno è toccato invece a questo dischetto dalla copertina intrigante (ma se dovessi giudicare dalle copertine, prenderei abbagli catastrofici).

La formula sembra piuttosto semplice e già sentita, una solida base ritmica con giri di basso in primo piano, chitarra presente ma non necessariamente prima donna, synth che accennano brevi riff che aggiungono suggestioni orecchiabili, insomma tutte cose che riconosciamo, ma è la voce sicura del cantante Tobias, un baritono dalle vibrazioni giuste, che pone alla fine l'album una spanna sopra molti altri.

Fanno la propria parte, ovviamente, anche solidità di scrittura e attenzione maniacale negli arrangiamenti. Difficile scegliere i momenti migliori, ma vi consiglio di dare un orecchio al brano di apertura Malo o al singolo Death Disco Dancer; se vi incuriosiscono, l'album potrebbe interessarvi.

21 agosto 2010

The Dark Night of the Soul is here

E' finalmente arrivato nei negozi questo album dalla storia travagliata, del quale vi avevo già parlato in occasione della tragica scomparsa di Mark Linkous.

I brani sono stati scritti e prodotti dall'accoppiata Danger Mouse (famoso tra l'altro per le sue collaborazioni con Gorillaz, Beck, Black Keys, The Good, the Bad and the Queen) e Mark Linkous (alias Sparklehorse), con la collaborazione di David Lynch per la parte visiva.

Il disco si avvale della collaborazione di diversi artisti che si alternano alla voce. L'effetto è quello di una sorta di compilation, ma con un filo conduttore molto forte, che spazia tra generi musicali anche molto diversi (si va dall'indie al punk, dal pop alla psichedelia), spiazzando continuamente l'ascoltatore che attraversa territori diversi e stati d'animo variabili pur continuando a percepire la mano comune che c'è in tutte le composizioni.

Tra gli altri appaiono i Flaming Lips, Iggy Pop, Black Francis, Suzanne Vega, Julian Casablancas, James Mercer, Vic Chesnutt, e lo stesso David Lynch che canta in due brani (personalmente acquisterò l'album già solo per questo, e vi consiglio vivamente la scoperta del Lynch cantante).

È un disco strano, con momenti eccellenti (il brano d'apertura, per esempio) e qualche momento di noia (vedi il pezzo cantato da Iggy Pop che non va oltre la mediocrità), ma pervaso da una tensione che lo rende molto più interessante di tanta produzione recente.

Merita una visita anche lo splendido sito ufficiale del progetto: armatevi di curiosità e navigatelo per bene.

Totally wired

Dei libri di Simon Reynolds ho già parlato: sapete dunque già tutto dell'enciclopedia della new wave che è Post-punk 1978-1984 (orribile traduzione dell'originale Rip It Up And Start Again) e della raccolta di articoli Hip-hop-rock 1985-2008 (anche qui uno stupro del titolo originale che era Bring The Noise)

Totally Wired, terzo volume di Reynolds pubblicato in Italia dalla comunque benemerita ISBN, si giova finalmente del titolo originale. In realtà, non siamo in presenza di quello che si potrebbe definire un nuovo progetto del giornalista inglese, in quanto questo massiccio volume altro non è se non una raccolta delle interviste realizzate dallo stesso Reynolds mentre preparava il suo indispensabile Rip It Up And Start Again.

Ma quali interviste, signore e signori! per quanto possa essere stucchevole, non trovo altro modo di dare conto della straordinarietà di questo volume che elencare tutti i nomi presenti: Ari Up (Slits), Jah Wobble (PIL), Alan Vega (Suicide), Gerald Casale (Devo), Mark Mothersbaugh (Devo), David Thomas (Pere Ubu), Anthony Wilson (cofondatore della Factory), Bill Drummond (cofondatore della Zoo e manager di Echo & The Bunnymen e dei Teardrop Explodes), Mark Stewart (Pop Group), Dennis Bovell (produttore di Slits e Pop Group), Andy Gill (Gang of Four), DaviD Byrne (Talking Heads), James Chance (Contortions, James White & the Blacks), Lydia Lunch (Teenage Jesus & The Jerks), Steve Severin (Siouxsie & The Banshees), Nikki Sudden (Swell Maps), John Peel, Alison Stutton (Young Marble Giants), Green Gartside (Scritti Politti), Gina Birch (Raincoats), Martin Bramah (Fall, Blue Orchids), Linder Sterling (Ludus), Steven Morris (Joy Division, New Order), Richard H. Kirk (Cabaret Voltaire), Alan Rankine (Associates), Paul Haig (Josef K), Phil Oakey (Human League), Martin Rushent (produttore per Stranglers, Buzzcocks, Human League, Altered Images), Edwyn Collins (Orange Juice), Steven Daly (Orange Juice), Paul Morley (giornalista e cofondatore della ZTT e degli Art of Noise), Trevor Horn (produttore, cofondatore della ZTT e degli Art of Noise, membro dei Buggles etc etc).

Non sempre, ovviamente, gli intervistati concedono grandi rivelazioni o si danno ad ampie rielaborazioni storiche. Ma alcuni lo fanno apertamente, altri lasciano intravedere squarci del proprio metodo, quasi tutti conversano con Reynolds da pari a pari. Si nota insomma l'assenza di quella noia inacidita tipica del musicista o del produttore che si trova per tutta la vita a parlare con giornalisti che, diciamolo in tutta franchezza, spesso di musica non sanno un granchè.

Se avete amato il primo libro, se siete affascinati dalla new wave e dai nomi sopra elencati, non potrete non apprezzare la profondità e l'ampio raggio delle interviste presentate. Preziosi anche gli approfondimenti collezionati in fondo al volume, che fanno da compendio alle interviste e approfondiscono argomenti che sono rimasti collaterali al volume principale.

E ora chissà cos'altro verrà fuori dagli archivi di Reynolds...

17 luglio 2010

Rowland e i suoi Popcrimes

Rowland S. Howard è stato uno dei personaggi più amabili della storia della musica cosiddetta "alternativa".

Fragile e inquieto, noto soprattutto per essere stato il chitarrista dei fondamentali Birthday Party di Nick Cave, ma autore di infinite collaborazioni (con Lydia Lunch, Einstuerzende Neubauten, Bad Seeds, Crime & The City Solution, Barry Adamson, These Immortal Souls, Nikki Sudden, Fad Gadget, Henry Rollins e vari altri), Rowland se ne è andato lo scorso 30 dicembre, divorato da un cancro a meno di 50 anni.

Non si può esagerare nel dire che è stato tra i chitarristi più influenti della sua generazione, forse più di altri che sono molto più famosi ma che hanno probabilmente assorbito da lui più di qualche ispirazione.

Pop Crimes è il suo secondo disco solista, esce ora postumo ma non si tratta di una semplice collezione di materiale inedito: è un'opera compiuta, quasi ultimata al momento della scomparsa dell'artista, che ora vede la luce dopo il necessario lavoro di post produzione.

Si tratta di un disco maturo, che ripassa tutta la carriera e le ossessioni di Howard: si succedono cavalcate oscure, crooning malato, ballad esistenzialiste e su tutto la sua chitarra lancinante, mai doma e mai acquietata.

10 luglio 2010

Danzig is back (and almost good)

Autori di almeno 4 dischi classici per la storia del metal, i Danzig - capitanati da quel Glenn Danzig già mitico frontman dei Misfits e dei Samhain - erano ormai da diversi anni relegati ad una specie di triste dimenticatoio per vecchie glorie. Nel tentativo di attualizzare il proprio sound, il buon vecchio Glenn pareva aver perso la bussola tra campionamenti, elettronica ed effettacci che poco si conciliavano con la classica miscela blues/hard/metal di sabbathiana memoria che aveva caratterizzato la prima produzione.

Deth Red Sabaoth giunge dopo 6 anni di silenzio (se non si considera una compilation di "lost tracks" pubblicata nel 2007) ed è un chiaro ritorno sui propri passi: riappaiono le sonorità tipiche dei primi 4 album dei Danzig, con un livello di scrittura piuttosto buono ed anche una prova vocale più che discreta da parte di un Gleen Danzig redivivo.

Merito forse anche della band, totalmente rinnovata, con il batterista dei Type'O'Negative Jhonny Kelly dietro le pelli e il leader dei Prong Tommy Victor alla chitarra, praticamente un super-gruppo. Il basso è stato diviso tra Danzig e Victor, essendo al momento la band mancante di un bassista in pianta stabile.

Il disco è ben arrangiato , ben suonato e decisamente più energico di qualsiasi disco di Danzig dopo il quarto. Non contiene nulla che possa sopravanzare i classici, ma brani come On A Wicked Night o Ju Ju Bone (solo per citare i primi due singoli) vi faranno ricordare come mai questo tizio bassino, imbolsito e invecchiato è stato una icona del punk prima e del metal poi.

9 luglio 2010

Faithless

E' ormai lontano il tempo in cui i Faithless ci sorprendevano con la deliziosa electro soul dance di Sunday 8PM.

Siamo qui al sesto album di studio e un certo logorio si fa sentire prepotentemente. Vero è che il problema del reinventare la propria formula si è presentato per tutti i grandi nomi dell'elettronica anni '90, cito a caso Chemical Brothers, Orb, Prodigy, Orbital e via così, dove non tutti sono riusciti nell'impresa di sopravvivere alle mode e ad una certa dipendenza da sonorità che sono invecchiate rapidamente.

Ma alcuni dei nomi citati hanno sfornato album interessanti, con idee originali e coraggiose, vedi soprattutto i Chemical. Purtroppo invece The Dance non colpisce in modo particolarmente positivo, e non è certo un disco che si ricorderà in futuro. La stessa band ha dichiarato che si tratta di un "ritorno alle origini", alla scena dei club dei primi anni '90, e che questo è l'album più dance che abbiano mai realizzato. Il problema è che il disco suona esattamente così: musica da discoteca di 15 anni fa, con pochi guizzi e la penalità di una certa mediocrità di scrittura che non gli consente di elevarsi da una piatta gradevolezza (certo, farà la sua figura se tenuto in sottofondo ad una festa di quarantenni a bordo piscina).

Maxi Jazz, Sister Bliss e Rollo possono fare molto di meglio, e ce lo avevano dimostrato più volte (vedi album come Outrospective e No Roots). Speriamo che in futuro ritrovino la bussola, senza ricascare in revivalismi che sembrano motivati solo da una grave mancanza di ispirazione.

28 giugno 2010

Il Genio 2

Torna il duo de Il Genio, a due anni dall'improvviso exploit di Pop Porno e dal primo disco omonimo. Torna con un secondo album che, come tutti i secondi album, presta il fianco ad essere sezionato e analizzato in un feroce confronto con la prima prova.

Questo se lo saranno ben atteso i due musicisti salentini (ma d'adozione milanese), i quali evitano il possibile passo falso di proporre in scaletta un clone del singolo di successo del primo disco, ma si guardano anche bene dal modificare la propria formula, che viene rivisitata senza troppe variazioni.

Inutile dunque cercare la Pop Porno 2 che non c'è, ma vano anche sperare in qualcosa di nuovo o di poter rintracciare una maggiore profondità in questo Vivere negli anni X. D'altronde, come già dicevo a suo tempo, questo è pop, e deve fare il suo mestiere senza scantonare troppo (anche se di esempi di pop che scantona potrei ben farne, ma si tratta di scelte).

Si ritrovano nell'album apprezzabili bozzetti alla Gainsbourg-Birkin, intrecci vocali ben studiati, arrangiamenti carini, suoni modaioli ma neppure troppo, insomma una piacevolezza leggera che appaga ma svanisce un po' troppo presto.

Nonostante venga confermata la mia buona impressione sul loro pop ottimamente confezionato, nonostante la conferma di una capacità notevole nella realizzazione degli arrangiamenti, e nonostante l'apprezzamento per lo spy-blues di Cosa Dubiti, per il cabaret sonoro di Overdrive, per la disco-modernariato di Fumo negli Occhi, mi aspettavo qualcosa di più dal duo Contini / De Rubertis. Gli auguro comunque tutto il successo del mondo e li attendo al varco del terzo album.

19 giugno 2010

Where did the UNKLE fall

Il terribile giochino delle etichette di genere, sempre opinabile (anche quando ci sono pochi dubbi sull'appartenenza di un gruppo ad una "scena" riconoscibile), si inceppa a volte in modo grave, affibbiando in eterno ad un gruppo o progetto una definizione poco sensata.

E' il caso degli UNKLE, frettolosamente infilati negli anni '90 nel calderone del trip hop, anzi indicati addirittura da alcuni come "il futuro del trip hop", e lì rimasti a dispetto di qualsiasi ragionamento.

A me invece sono sempre sembrati un'evoluzione ben diversa della scena DJ dei primi anni di quel decennio. Una scena, certo, legata all'hip hop ed alle tecniche di scratching e di sampling, tutte cose confluite anche nella costola "trip", ma nel caso degli UNKLE c'è una inclinazione molto più vicina all'electro pop raffinato e un po' intellettuale, roba che si avvicina decisamente più a Bjork che ai Massive Attack, tanto per dire.

Where did the night fall è il quarto album di studio di una storia discografica rarefatta, fatta di lunghissimi silenzi appena intervallati da raccolte di materiale vario (soundtrack, raccolte di remix). La forza del progetto, il cui unico punto fermo è rappresentato da James Lavelle, è stata sempre l'uso di ottime collaborazioni: nei dischi usciti con l'etichetta UNKLE si ritrovano nomi eccellenti come DJ Shadow, Richard Ashcroft, Thom Yorke, Ian Brown, Josh Homme, Ian Astbury, Mark Lanegan, e la lista sarebbe ancora lunga.

Questo quarto disco si innesta nel solco tracciato dai precedenti, senza introdurre innovazioni o brividi particolari. C'è qualche canzone di eccellente fattura, momenti pop di sicura efficacia, arrangiamenti perfetti e un eccelso lavoro dii studio.

Il problema degli UNKLE sta però nel loro essere privi di un'anima o di una visione unitaria. Ogni singolo brano può essere gradevole o restare anche impresso per qualche ora, ma nulla in definitiva sopravvive alla polvere del tempo. Peccato, perchè di qualità ce n'è tanta e il lavoro di produzione è di altissima scuola.

Quindi, Max?

Max Gazzè, come ormai assodato, è un ottimo musicista e un autore dalle grandi capacità, uno che può giocare al nuovo Battiato creando arrangiamenti raffinatissimi, ma anche in grado all'occorrenza di sfornare brani irresistibili, con una presa immediata ma sempre dotati da una evidente intelligenza e da uno stile personale.

Comincio però a pensare che il nostro abbia una sorta di sdoppiamento di personalità artistica, una tendenza a generare due discografie parallele.

Una è quella più "alta", musicalmente molto densa, attraversata da inquietudini personali e corredata da un immaginario affascinante. Una vena che si avverte soprattutto nell'album d'esordio e in parte del più famoso secondo disco (La favola di Adamo ed Eva), ma che si ritrovava anche nel penultimo ed ottimo Tra l'aratro e la radio.

Una differente cifra stilistica, più radiofonica, ma soprattutto più rassicurante, è quella che predomina ad esempio nell'album Un Giorno, e che si trasferisce per direttissima a quest'ultimo Quindi?Sarò pertanto molto banale, ma trovo irresistibile trasformare il titolo del disco in una battuta e chiedere a Max quale sia, quindi, la sua vera strada.

Lo so, un artista fa quello che gli pare, e alternare proposte più complesse a trame più immediate potrebbe essere una scelta. Ed è anche vero che un autore non debba per forza tenere conto di differenze del genere in fase di composizione: possibile che lo stesso Gazzè abbia lavorato con la medesima attitudine ai due ultimi album, salvo poi ottenere due raccolte di canzoni così diverse tra loro. Ma trovo strano ritrovarmi con due album successivi che sembrano quasi nascere da due autori diversi.

Personalmente, di questo lavoro riesco ad apprezzare del tutto solo pochi momenti: l'iniziale Io dov'ero, la stralunata Storie crudeli, la conclusiva DNA e qualche "potrei ma non voglio" che emerge da altri brani.
Per carità, capiamoci: è un album di eccellente fattura, ricco di ottimi spunti, con testi sempre interessanti, ma personalmente avrei preferito ritrovare un lavoro di arrangiamento che sollevasse i brani da una certa delicata giovialità che sinceramente non fa per me. Fortunatamente, il pubblico è ben più vario e Gazzè potrà continuare a incidere un po' quello che cavolo gli pare, senza curarsi delle mie lamentele.

Broken Bells

Brian Burton e James Mercer. Se non lo sapete, il primo è il vero nome di Danger Mouse, il secondo è il cantante degli Shins.

Si sono incontrati ed è venuto fuori questo dischetto strano, un alternative-rock-pop che suona molto come se Danger Mouse avesse prodotto un disco degli Shins.

Un concentrato di psichedelia minima, di sintesi accorta e di melodie ben studiate, un disco lieve ed orecchiabile che non lascia segni evidenti ma si fa anche riascoltare con piacere.

Su tutto, si staglia la perfezione del primo singolo estratto (nonchè brano di apertura): The High Road ha tutti i crismi per diventare la vostra canzone pop preferita, ascoltatela e ditemi se non è così.

17 giugno 2010

Stone Temple Pilots are alive

Dopo il ritorno degli Alice in Chains, stavolta tocca agli Stone Temple Pilots rifarsi vivi dopo tanto tempo.

Certo, si sono molte differenze tra i due ritorni - il leader degli AIC ha conosciuto una morte prematura, mentre gli STP tornano nella formazione originale; i primi non davano alle stampe un disco dal 1995, i secondi dal 2001 - ma l'analogia principale sta nel fatto che si tratta di due band che avevano conosciuto, dopo il grande successo degli anni '90, legato all'esplosione del grunge - e anche qui urge un distinguo tra lo stile delle due band, decisamente orientati al metal gli AIC, molto più glam e psichedelici gli STP - si erano poi perse per strada per ragioni legate all'abuso di droghe da parte del proprio cantante. "Non si esce vivi dagli anni '90" è un adagio che mi suona molto più realistico di quello diffuso in relazione agli anni '80.

Layne Staley se n'era andato nel 2002, dopo anni di reclusione in casa, a causa della tossicodipendenza mai vinta. Scott Weiland sostiene invece di essersi disintossicato nel medesimo anno, sebbene si siano sempre inseguite voci di ricadute. Il cantante sostiene di aver abusato d'alcol e di altre sostanze ma mai più di eroina. nel frattempo ha trovato le energie per due album con i Velvet Revolver (assieme a tre ex membri dei Guns N' Roses) e per il proprio secondo album solista. Chi come il sottoscritto ha avuto modo di vederlo dal vivo negli ultimi anni, avrebbe scommesso ben poco sul fatto che sopravvivesse ancora a lungo.

E invece. Eccolo qua Scott Weiland, ed ecco qua gli Stone Temple Pilots. Quindi anche i fratelli Robert DeLeo (basso e voce) e Dean DeLeo (chitarra), ed Eric Kretz (batteria). Negli anni '90 c'era chi li considerava un gruppo minore, troppo incline al pop, troppo leggero rispetto al grunge dei duri e puri. E certo, era vero che la band subiva influenze diversissime, mescolando qualche elemento grunge (presente soprattutto nel primo album Core) a glam, pop, psichedelia, e hard rock puro e semplice. Ma il valore di un album come Purple non può essere valutato in base all'aderenza ad uno stile formale che all'epoca pareva essere diventato obbligatorio.

Questo disco di rientro non ha purtroppo la medesima caratura dei primi lavori, ma nemmeno la piacevole giocosità di Tiny Music o l'elegante grazia compositiva del radiofonico ma ottimo No. 4. Somiglia piuttosto a Shangri-La Dee Da, il disco col quale la band si era accomiatata 9 anni fa.

Troppe banalità melodiche e una patina di vacuo negli arrangiamenti indeboliscono un lavoro che invece qua e là farebbe intravedere anche cose buone (il primo pezzo ad esempio poteva far ben sperare). Soprattutto i fratelli DeLeo, capaci di composizioni se non altro intriganti, mi deludono con scelte molto timide e generalmente banali. Peccato, anche se ci sono comunque due buone notizie: la prima è che un disco degli Stone Temple Pilots è sempre meglio che una band con Slash, la seconda è che pare che Weiland sembri un po' più in carne nei live recenti. Dai, che almeno lui ce le fa.

15 giugno 2010

Wovenhand: The Threshingfloor

E' quasi superfluo ricordare la mia devozione per questa band e per il suo leader.
The Threshingfloor è il quinto album di inediti partorito dai Wovenhand di Eugene Edwards, arriva due anni dopo l'ottimo Ten Stones e l'ho atteso con una certa trepidazione.

Il disco l'ho ascoltato ormai diverse volte e devo dire di essere sorpreso dall'effetto che ne ho avuto: è come se questo disco non fosse uscito, come se lo attendessi ancora.
Qual'è il problema? Nessuno, in effetti: l'album è molto bello e lo consiglierei ad occhi chiusi a chiunque non conoscesse ancora la band statunitense.

Ma è un disco talmente "Wovenhand" da sembrarmi già sentito mille volte: sonorità, atmosfere, strutture, tutto mi sembra un'eco dei lavori precedenti. Non siamo certo di fronte ad un fenomeno di auto-plagio; ma avrei probabilmente gradito maggiormente qualche tentativo di innovazione. Con questo pensiero in mente, lo rimetto su, che mi piace da impazzire.

12 giugno 2010

Settimo album per i Chemical Brothers

Further segna il capitolo numero sette nella ormai quindicinale carriera dei Chemical Brothers.

Sembra vicinissimo e lontanissimo il giorno in cui ascoltai il devastante Dig Your Own Hole, uno dei dischi che hanno segnato la storia mia personale e della musica dei '90.

Pionieri della fervente scena big beat, i due musicisti londinesi hanno continuato, dopo l'enorme successo di quell'album, sfornare ad intervalli regolari dischi che non hanno più raggiunti i vertici iniziali ma sempre ricchi di spunti interessanti.

La formula è stata via via rivisitata senza scossoni improvvisi ma con la sapienza di chi non vuole ripetersi a tutti i costi: da Surrender a We Are The Night si sono trovate sempre meno "big drums", una pacata introduzione di elementi electro più tradizionali, il ritorno occasionale in territori psichedelici.

Further a sua volta scarta di lato rispetto al predecessore e punta su un sound molto cosmico e di discendenza quasi kraut. Totalmente padroni dei sintetizzatori, che spremono in tutti i modi immaginabili, i due rinunciano alle collaborazioni alle quali ci avevano abituati e si riappropriano totalmente del desk, sfornando un album che potrebbe essere un manuale techno-psichedelico per il terzo millennio.

Qui però salta fuori il paradosso: i Chemical sono incollocabili nel tempo eppure suonano così pervicacemente 90's...

2 giugno 2010

Danza meccanica

Ho già parlato del fermento underground nell'Italia degli anni '80, ben documentato in particolare da diverse uscite recenti curate dalla rediviva Spittle Records. A fare da utile complemento a quelle raccolte, giunge ora Danza Meccanica, compilation che vede la luce grazie alla collaborazione tra Mannequin e In The Night Time

Pubblicato un anno fa in vinile in edizione limitata, viene adesso distribuito in CD con l'aggiunta di 3 bonus tracks. Danza Meccanica scava nell'ambito più elettronico della new wave italiana, e infatti riporta il sottotitolo "Italian Synth Wave 1982-1987".

L'edizione è molto ben curata, a partire dalla bella grafica minimale, e propone una collezione di brani registrati da nomi praticamente sconosciuti, tranne qualche rara eccezione (Victrola, Janitor of Lunacy, Monuments).

Il livello medio delle composizioni non è eccelso, ma d'altronde qui si pesca appunto nell'underground più marginale dell'epoca. L'operazione ha il suo valore soprattutto nel riportare alla luce una scena altrimenti decisamente dimenticata.

01. Xno - The Story Of The Death Boy
02. Vena - A Mortal Song In A Beautiful Sunday
03. Victrola - The Mutant Glow
04. Tommy De Chirico - Flower Into The Factory
05. Carmody - Vulcani
06. Janitor Of Lunacy - On The Dancefloor
07. Monuments - Veiled Lady
08. Intelligence Dept. - Loneliness
09. Chromagain - Wake Up
10. Lisfrank - Identity (Deep Version)
11. Victrola - Behind The Door
12. Tommy De Chirico - Close Your Eyes
13. Janitor Of Lunacy - War Days

25 maggio 2010

Sisterworld: Liars vs Liars

Gli anni zero in musica sono stati l'apoteosi dell'imitazione e del crossover selvaggio, una diffusa orgia citazionista in cui ogni genere, sotto-genere e sotto-sotto-genere è stato via via accoppiato con tutti gli altri.

Una sorta di ricerca della pietra filosofale, nata in parte dalla difficoltà di produrre vere novità in campo musicale, in parte dal genuino desiderio di sperimentare accostamenti ancora inediti.

Dove si pongano i Liars in questo panorama è tema discusso e ancora piuttosto dubbio: geniali innovatori, volgari imbroglioni o semplicemente continuatori di tradizioni illustri? Non lo so, o comunque non intendo scervellarmi. Quello che posso dire è che questi qua son capaci di tirare fuori belle idee e qualche pezzo veramente inquietante - spesso accompagnati da ottimi video - sembrano sinceramente schizzati e comunque sanno far parlare di se', ma sulla lunga distanza dell'album non mi convincono troppo.

Questo quinto album Sisterworld è di qualità discreta, con momenti decisamente interessanti alternati al altri un po' noiosetti, ma il problema è che non mi resta in mente in alcun modo, neppure al quarto ascolto. Peccato, perchè le buone premesse ci sono tutte, e i riferimenti, come già detto, coltissimi (a chi? non spetta a me svelarlo, per quello c'è Wikipedia).

Nota di merito per l'eccelso packaging ideato dalla Mute, e per l'interessante CD di remix (uno per ciascun brano presente nell'album) allegato alla prima stampa. Con nomi illustrissimi: Alan Vega, Carter Tutti, Thom Yorke, Kazu Makino, Boyd Rice...

18 maggio 2010

Trent'anni fa


La mattina del 18 maggio 1980 Deborah Curtis trovò il marito Ian impiccato nella cucina della loro casa di Macclesfield. Ian doveva ancora compiere 24 anni, ma lasciava un testamento musicale di valore incalcolabile. La sua influenza sulle generazioni future è enorme. Trent'anni dopo, non voglio stare a ragionare su un suicidio le cui motivazioni restano dopo tutto non acclarate. Ci sono libri da leggere, film da vedere. Quello che conta è la musica dei Joy Division.

Visto che questo blog deve parlare di dischi, può darsi che vi interessi sapere che questo cofanetto è un oggetto necessario. Se non lo possedete, potreste comprarlo oggi.

16 maggio 2010

Il ritorno di Brendan Perry

Noto soprattutto per la straordinaria carriera con i Dead Can Dance, il membro fondatore Brendan Perry si era cimentato da solo soltanto nel 1999, con l'onesto ma non sbalorditivo Eye Of The Hunter.

Torna adesso con il secondo lavoro Ark, un'opera che si discosta dalla prima e torna in modo abbastanza evidente alle atmosfere del gruppo di origine, pur con soluzioni originali e aggiornate ai tempi.

Se l'opener Babylon, con tanto di intro alla Twin Peaks e percussioni che non possono non far pensare al primo album dei Dead Can Dance, è un totale tuffo nel passato, la successiva The Bogus Man si apre con inaspettate sonorità dance, salvo poi ripiegare su terreni più familiari al nostro quando il brano si apre al cantato.

Un'alternanza di suoni orchestrali, synth, sequencer e ritmi elettronici che si ripete in tutto l'album, con il risultato di donare all'insieme una varietà sonora tanto più apprezzabile quando è accompagnata dall'inconfondibile e rassicurante voce di Perry, in grandissima forma sia come interprete che come autore.

Un disco che punta certamente molto sull'effetto nostalgia, ma diciamoci la verità: che senso avrebbe se un artista che riesce a fare un disco come questo, non lo facesse esattamente così?

Nota tecnica sulla confezione: bello il cartonato, evocativa la bella foto di copertina, peccato che il bel libretto completo di testi sia disponibile solo sul sito ufficiale.

28 aprile 2010

Mt. Sims... again

Il signor Sims è un personaggio ben strano.

Addirittura, un colosso come Discogs ha dei problemi a catalogarlo sotto i suoi diversi pseudonimi (Mount Sims, Mt Sims, Mt. Sims e via andare), al punto che quest'ultimo album, di cui vedete la cover qui di fianco, non è listato in nessuna delle pagine a lui ricondicibili sull'aggiornatissimo database del sito.

Produttore, DJ, remixer (in un caso anche per Madonna), ha prodotto un primo album decisamente elettronico (Ultra Sex, 2002), salvo poi imbattersi nel mostro sacro David J, con la collaborazione del quale ha dato alla luce un secondo disco (Wild Light, 2004) molto più influenzato da atmosfere oscure e ammiccanti al post punk. Fin qui lo pseudonimo era Mount Sims. Dal 2008 il nome si accorcia in Mt. Sims, con l'uscita di Happily Ever After, un disco in bilico tra elettronica e gothic wave, dotato di ottime intuizioni e di coraggio sfacciato, sebbene ancora non completamente convincente.

Dopo due anni Matthew Sims ripete l'esperimento con Happily Ever After... Again, un vero e proprio "capitolo II" che riprende la medesima formula del lavoro precedente, spingendo però maggiormente sul pedale della nostalgia primi anni '80.

Il disco è perfettamente godibile per chiunque, come me, sia in grado di apprezzarne le atmosfere electro-dark e i continui rimandi ad un repertorio riconducibile a nomi più o meno noti ed illustri (si può pensare a Bauhaus, Christian Death, New Order e così via, non allungo la lista perchè sarebbe fin troppo facile e banale). Esperienza e mestiere, che vanno riconosciuti al musicista tedesco, gli consentono di tenere saldamente in mano i fili di un gioco altrimente pericoloso, mescolando buone idee compositive a una produzione attenta e consapevole.

L'album mostra un po' di corda sulla lunga durata, ma a parte qualche caso è composto di tracce molto piacevoli e in qualche caso decisamente buone (valgano su tutti i primi 4 brani, saggiamente piazzati in cima alla tracklist come un poker d'assi nella prima mano).

Se amate il batcave-sound, se non disdegnate le ottime imitazioni, se avete voglia di dare una possibilità ad un artista che onestamente si riconosce in una scena che tutti si affannano a dare per morta e sepolta sotto diversi metri di storia della musica, provatelo, e poi ditemi se il consiglio era valido o se avete buttato via un'oretta del vostro tempo.