25 settembre 2011

This Mortal Coil, the box

Lo dico subito: non me lo comprerò, perchè ne posseggo già tre quarti e sono stufo di sperperare denaro in riedizioni. Ma capperi, quanto è bello.

Annunciato da almeno un anno, il box in 4 CD dedicato ai This Mortal Coil (la creatura multiforme voluta da Ivo Watts-Russell della 4AD) uscirà finalmente nel mese di novembre.

Conterrà le versioni remastered e in HD dei tre album classici It'll End In Tears (1984), Filigree And Shadow (1986) e Blood (1991), riedite in un bel package in carta giapponese e con l'artwork originale rielaborato dal designer dell'etichetta Vaughan Oliver (lo stesso che ha curato le prime edizioni).

Il quarto CD, Dust & Guitars, è l'unica chicca che aggiunge qualcosa al risaputo. Raccoglie i pezzi usciti in singoli ed EP, più due tracce recuperate dagli archivi dell'etichetta e finora inedite: Thais (Bird of Paradise), una versione alternativa della traccia presente su Filigree & Shadow, e We Never Danced, una cover di Neil Young registrata durante le sessioni di Blood ma non utilizzata. Vi riporto la tracklist di questo quarto CD.

DUST & GUITARS
1. Sixteen Days/Gathering Dust
2. Song To The Siren
3. Sixteen Days (Reprise)
4. Kangaroo
5. It’ll End In Tears
6. Come Here My Love
7. Drugs
8. Acid, Bitter and Sad
9. We Never Danced
10. Thais (Bird of Paradise)

(Ribadisco, non lo comprerò. Ma il video qua sotto mi fa scendere un filino di bava lo stesso.)


Ritorni e cambiamenti dai '90 (capitolo 2)

Continuo la breve carrellata sui dischi appena usciti da band "anni 90".
Anche stavolta, un KO e un OK, per la parità. Accomodatevi.

Red Hot Chili Peppers: I'm With You

Va bene, ammettiamolo: i Red Hot sono una band nata negli anni '80, e negli anni '80 hanno sfornato ben 4 album. Ma il cambio di formazione dell'89, e il successo planetario conquistato con Blood Sugar Sex Magic solo nel 1991, ne fanno una band anni '90 a tutti gli effetti. Chiedete in giro ai 40enni a quale decennio associno i RHCP, e vedete cosa vi risponderanno.

Ammettiamo anche, già che ci siamo, che io non sono certo un grande fan della band di Antony Kiedis. All'epoca, avevo trovato molto divertente Mother's Milk, e avevo apprezzato la muscolarità e lo sfoggio di figosa funkosità del già citato Blood Sugar Sex Magic, anche se me ne ero stufato presto. Avevo però amato molto One Hot Minute, l'album meno RHCP della loro carriera. Dopo li ho trovati in caduta libera, molto attratti da una commercialità che a partire da Californication è diventata il marchio di fabbrica principale dell'azienda.

Ciò nonostante, mi stupisce scoprire che I'm With You è brutto almeno quanto Stadium Arcadium, visto che se ne parlava come di un grosso rientro. Frusciante non c'è di nuovo, ma lo accenno appena, visto che la differenza stavolta è poco percettibile. Molto evidente invece la scarsità di idee che aveva già assassinato il disco precedente, e la fiacchezza del sound di una band che forse a 50 anni avrebbe dovuto cambiare genere. Inutile.


Primus: Green Naugahyde

I Primus sono invece "purissimi anni '90": primo album (un live!) nell'89, e poi l'accoppiata devastante di Frizzle Fry ('90) e Sailing The Seas Of Cheese ('91) a dare alla band di Les Claypool lo status di discendenti, nientemeno, che dei Residents e dei Rush (due influenze dichiarate, forse in parte ironicamente, dal terzetto).

Dopo un picco creativo raggiunto nel 1995 con Tales from the Punchbowl, un album che aggiungeva alla solita mistura di funk, alternative rock e metal, degli elementi di squisitissima psichedelia, i tre dischi di studio successivi erano stati una lenta decadenza, sebbene il livello si fosse mantenuto sempre ben sopra la sufficienza.

Green Naugahyde è il primo disco di studio dei Primus in 12 anni: non ci avevano riprovato da Antipop del 1999. Dico la verità, quando l'ho ascoltato non mi aspettavo nulla: temevo un noioso sfoggio di perizia tecnica bassistica di Claypool in svogliate jam-session.

Invece i tre (perso per strada Tim Alexander, è stato ripescato il vecchio batterista Jay Lane a fare da spalla alla strana coppia Claypool/LaLonde) ci regalano quello che avrebbe potuto essere il degno seguito al loro momento d'oro dei primi '90. I Primus suonano esttamente come i Primus, addirittura infilando qualche gioellino e mantenendo un livello medio decisamente alto.

Certo, un disco che non cambia la storia della musica e guarda molto alla nostalgia dei "bei vecchi tempi". Ma con una freschezza e una verve che a molti farebbero invidia.

22 settembre 2011

Ritorni e cambiamenti dai '90 (capitolo 1)

Gli anni '90: territorio complesso e variegato, il decennio in cui tutto si è mescolato, in cui i gusti del pubblico sono mutati drammaticamente, in cui fuori dagli ambita metal e dance l'unica vera novità (almeno a livello di look e attitudine) è stato il grunge, un non-genere che si riappropriava degli slogan del punk trasformandoli in qualcosa di ancora più serio. Le band degli anni '90 hanno fatto strane parabole. In questi giorni c'è un profluvio di uscite da parte di formazioni con vent'anni di storia alle spalle. Mi ci immergo un po' e cerco di darne conto.

Dream Theater: A Dramatic Turn Of Events.

Questo è uno dei gruppi più attivi nel genere prog-metal, di cui sono, tra luci e ombre, tra gli esponenti più noti al pubblico dei non specialisti. Il primo album è del 1989, ma la consacrazione è stata raggiunta nel 1992 con Images And Words. A pieno diritto si tratta di un gruppo "anni '90", essendo quello anche il decennio della maggiore popolarità della band e delle prove di studio più convincenti. Sono stati prolificissimi: A Dramatic Turn Of Events è l'undicesimo disco di studio, con una media di un album ogni due anni (più 5 live, un EP e una raccolta).

Una quantità non sempre associata alla necessaria qualità. Dotati di una tecnica eccellente e indiscutibile, i DT non sono riusciti nell'arduo compito di suonare sempre musicalmente interessanti e di rispettare gli intenti che erano legati al nome della band.

Dopo il clamoroso abbandono da parte del membro fondatore, nonchè leader carismatico, Mike Portnoy, e la travagliata ricerca del sostituto, molti si aspettavano una sorta di nuova vita per la band. Niente di più falso: questo disco suona esattamente come una stanca riproposizione dei medesimi elementi dei tre noiosissimi album precedenti. Non fatevi ingannare dai primi due minuti del primo brano, che aveva fatto ben sperare i fan. Non appena sentirete entrare la voce di James "Ciccio" LaBrie, vi prenderà un torpore in stile nonno in sedia a dondolo col gatto in braccio. Ribadisco: tecnica ineccepibile, trame intricate, tutti gli ingredienti che fanno di una band come questa pane per i denti di impiegati di banca con sogni di plastica. Ma pochissima fantasia, linee vocali da schiaffi, pochissima anima e soprattutto una vocazione circense che ha proprio stufato. Bocciatissimo.


Opeth: Heritage

Una band dal seguito molto ampio, pur con la strana commistione di generi che la caratterizza. Partita nel 1995 con un album di Death Metal dai toni molto oscuri e quasi canonico per il genere, la band ha inserito via via elementi sempre più prog rock, caratterizzando la propria musica con partiture complesse, con tipici scambi tra cattivissimi riff veloci e ammalianti parti melodiche, e con la caratteristica alternanza di growl e voce pulita (e intensa) da parte del fondatore e leader Mikael Åkerfeldt.

La band fino al 2003 è stata incredibilmente prolifica: quasi un album all'anno. Da allora, gli Opeth hanno molto dilazionato le uscite, sfornando solo un paio di dischi, puntualmente discussi dai fan per le scelte stilistiche, ma di qualità assoluta indiscutibile. Ora, il decimo album di studio Heritage sembra voler segnare un punto di svolta importante per la band. Il disco non reca quasi tracce di metal, Åkerfeldt non accenna neppure per un istante a darsi al growl, le influenze più evidenti sono King Crimson e Genesis, il suono è decisamente anni '70 tra organi hammond, flauti, chitarre a 12 corde e pelli accordate con una morbidezza che è inusuale per un gruppo seguito da gente con le borchie ai polsi e i satanassi sulle t-shirt.

È un bell'album, rilassante, suonato con perizia e musicalmente vario, nonostante l'appiattimento su un sound che non riserva certo sorprese. Potrebbe far storcere il naso a molti fan della prima ora, ma una cosa è certa: nessuno può affermare che questa band riposi sui propri allori.

12 settembre 2011

Suck The Arctic Monkey And See

Che peccato, questo disco. Non me l'aspettavo. Eppure non stavano andando male, gli Arctic Monkeys. Fino al terzo disco li ho seguiti con interesse.

Avevano incasellato un paio di dischi di rock leggero, che si poteva magari anche tacciare di essere un po' commercialotto, ma molto energico, piacevole e dal grosso potenziale radiofonico (per inciso, il primo disco aveva battuto il precedente record di vendite di un disco d'ersordio, detenuto fino ad allora dagli Oasis). Poi un bel terzo album li aveva consacrati come band ormai matura e capace anche di prove meno adolescenziali, ben strutturate e rifinite. E cosa ti combinano? Arriva questo quarto dischetto fiacco e fuori fuoco, sin dalla copertina che non poteva essere più scialba di così.

Il lavoro è minato soprattutto da una pesante incoerenza interna, oltre che da una qualità di scrittura che in alcuni punti non conferma gli standard della band.

Niente di atroce, sia chiaro: l'album scorre via senza grossa infamia - e dopo qualche ascolto vi piazza anche in testa tre o quattro tormentoni, vedi per esempio Brick by Brick o Reckless Serenade - ma si avverte una artificiosa alternanza tra brani più poppy - come l'opener She's Thunderstorms - che ricordano i primi due album, e canzoni con arrangiamenti più psichedelici, nella scia dell'album precedente. È proprio lo stile del cantato a mutare brano per brano, con un "effetto compilation" che sgrana l'album e ne fa un'esperienza meno godibile di quanto sarebbe stato possibile.

Detto questo, l'altro problema è che ci sono troppe canzoncine vacue nel disco, che non hanno ne' il pregio di restare in testa ne' una qualsivoglia velleità di tipo artistica: stanno lì come puro riempitivo, e questo è un peccato mortale per una band che vuole aspirare a qualcosa in più che piazzare un paio di buoni singoli in classifica.

Chiuderei qui il discorso, ma mi scappa una coda analitico-polemica in tema di critica e definizioni, che chiunque non segua le mie solite farneticazioni può tranquillamente saltare.

Chi mi legge (il mio gatto e la mia ex bassista) me lo ha già visto scrivere: "Indie rock", "Alternative rock", "Brit rock"... queste etichette non sanno di nulla e non definiscono nulla, e per giunta non rendono un grande favore a band come gli Arctic Monkeys. Eppure la stampa (sia quella cartacea che il frammentatissimo universo della rete) ha fatto a gara ad inventarsi definizioni tra le più disparate e prive di senso.

Il fenomeno è diffuso e a volte ha impatti nefasti. È anche il segno di un'epoca, in cui le "rece" (parola abominevole che indica, appunto, una recensione monca) si fanno scopiazzando le pagine di Wikipedia, che sono a loro volta scopiazzate da vecchie rece.

Negli anni '00 ne ho viste tante di formazioni che sono esplose al primo album, hanno avuto cori di hosanna sperticati al secondo, e poi sono finite in una sorta di limbo, per diversi motivi ma a volte anche per l'incapacità della critica di ficcarle da qualche parte e quindi di presentarle per quello che erano: pop rock. Queste due parole messe assieme fanno orrore a tutti, ma il concetto è chiaro: "rock da classifica", roba su cui forse non bisogna nemmeno ragionare troppo, ma della quale un giornalista onesto potrebbe almeno far capire se si tratta di musica abbastanza figa, o non abbastanza, da meritare un ascolto da parte del pubblico adolescente.

Spesso queste band iniziavano con un pop-rock, appunto, chiassoso e scanzonato, con influenze brit anni '60 e molto radiofoniche, per un pubblico molto giovane. Poi molte sono cresciute e hanno cercano una propria maturazione stilistica. Al secondo o terzo album hanno iniziato a pescare consensi anche tra un pubblico più adulto, come è naturale.

Ma qui si è incasinato tutto: il blogger sedicenne si domanda "cosa fanno questi qua"? Che suono hanno? Sono cambiati? Si, un po'. Sorge spontanea la domanda successiva: chi ha prodotto l'album? Ha, il tale? Allora il genere è questo, ma con un po' di quello. La gente legge le recensioni, non ci capisce nulla e perde interesse. Come dite? Che le recensioni non le legge più nessuno? Mmmh, secondo me negli ultimi tempi invece sono ancora più importanti di una volta, soprattutto se parliamo di quelle in rete. Gli album nascono in rete, vengono downloadati, il pubblico legge i commenti su facebook...

Gli Arctic Monkeys sono un esempio tipio: iniziano la loro carriera nel 2006 con un album dal titolo chilometrico (Whatever People Say I Am, That's What I'm Not) e dal sound frenetico. Energia a mille, notti in bianco, follie adolescenziali, urgenza di esprimere qualcosa purché ci si esprima. Antagonismo a tutto e a niente, ribellione di maniera. Tutte cose già sentite, ovvio, ma dette molto bene, con coerenza ed efficacia. L'album attira attenzioni e pone la band nello status di "quelle da tenere d'occhio". Nel 2007 segue Favourite Worst Nightmare, di nuovo un bel disco, meno frenetico ma ugualmente energico, orecchiabile, suonato con vigore e un po' più smaliziato. Sempre nulla di incredibile, ma si va nella direzione giusta. La band resta sotto i riflettori ma ancora nessuno sa cosa faccia di preciso. Molti evocano a vanvera "i nuovi Oasis" (non si capisce sulla base di cosa). Il gruppo punta molto sui testi, intelligenti e vagamente inquietanti, proprio il contrario della band dei fratelli Gallagher. Passa un po', e la band chiama Josh Homme (Kyuss, Queens of the Stone Age) a produrre il terzo album. È fatta, si dicono i critici: ora possiamo parlare di "stoner rock". Peccato che Humbug non sia un disco stoner. È però molto diverso dai precedenti, anche perchè registrato negli States e, appunto, prodotto da Homme, la cui influenza bene o male si sente. Incidentalmente, è un bell'album, e potrebbe indicare la strada giusta. È il 2009 e si resta in attesa di vedere cosa succederà.

Ed eccoci qua, calendario aggiornato al 2011. Esce Suck It And See. Ohibò, difficoltà, stavolta è difficile usare la parola "brit", perchè l'album sa ancora molto di America. Ma non è stoner, no, certamente, anzi molti lo stoner lo nominano ancora ma parlano anche di psichedelia, leggo di influenze dei Queens of the Stone Age ma anche dei Beach Boys. Ma l'album è ancora più lontano del precedente da qualcosa che somigli ai Queens, anche perchè Homme non produce più. E cosa c'entrano i Beach Boys? Non si capisce. Un gran casino, insomma. La cosa peggiore è che, davvero, il disco non è un granchè, e non solo perchè lo penso io, ma per i motivi che dicevo più su. Ma molti ci girano attorno, non sanno come valutarlo. È evidente che tra chi ne scrive, la musica, ormai, la ascoltano proprio in pochi. E quelli che la ascoltano chissà cosa ci sentono.