27 gennaio 2011

Young Gods ribaltati

Everybody Knows è il nono album di studio degli Young Gods, uno dei gruppi meno conosciuti ma più influenti nati nei primi anni '80.

La loro eredità è presente in molte band in modo trasversale, ma è stata evidente soprattutto nella scena post-industriale degli anni '90.

A tal proposito mi piace sempre ricordare che, quando gli fu chiesto se era stato influenzato dal sound dei Nine Inch Nails per la realizzazione di 1.Outside, il duca bianco rispose che no, era stato influenzato dagli Young Gods, riconoscendo praticamente la loro primogenitura.

Il collettivo svizzero, che è stato tra l'altro tra i pionieri dell'utilizzo del campionamento come tecnica centrale del proprio metodo di composizione (il campione usato non come aggiunta alla strumentazione standard, ma come mattone di base), ha da sempre mescolato new wave, power rock e ambient elettronico, incorporando via via nella propria storia gli elementi più disparati, dalle canzoni di Kurt Weil (vedi l'album di cover omonimo) ad un post-heavy metal quasi da cartone animato (vedi l'album TV Sky).

Il loro ultimo album, Super Ready/Fragmenté, pubblicato per l'occasione dalla Ipecac di Mike Patton, non era stato uno dei loro più convincenti. Aggressivo, ben prodotto, certamente godibile, non aggiungeva però nulla di nuovo ad una formula ormai ventennale. Un buon compitino, sopra la media delle uscite del decennio ma meno di quanto fosse lecito aspettarsi dal terzetto.

Ma nel nuovo lavoro, inaspettatamente, cambia tutto. Everybody Knows, sin dalla copertina, capovolge la visuale, prospettando una inversione delle priorità. Mentre nel disco precedente le atmosfere venivano utilizzate principalmente come stratificazione e con funzione di riempitivo, sopra una furia ritmica preponderante, qui è la creazione dell'ambiente a farla da padrona, pur non relegando troppo in secondo piano le abituali sperimentazioni elettroniche.

Il risultato è un album molto maturo e variegato, che riesce incredibilmente ad aggiungere ancora qualche elemento rilevante alla storia della band. Non è cosa comune che un disco riesca a suonare tanto fresco e godibile quando arriva come complemento ad una storia trentennale, quasi come non fosse stato partorito da un gruppo di ultracinquantenni. Che si danno anche alla grande nei live, vedi la produzione che stanno sfornando in questi mesi.

20 gennaio 2011

White Lies alla prova

I White Lies sono un oggetto strano nella lunga serie di band che la critica ha frettolosamente etichettato come eredi della new wave britannica dei primi anni '80.

(Mi si consenta uno sfogo tra parentesi: ma è possibile che una intera genìa di cosiddetti critici non sia stata capace di far altro che nominare i Joy Division come comuni ispiratori di una generazione di musicisti che hanno spesso ben poco a che fare tra loro? E ancora: ma può mai essere che nessuno si ricordi che "new wave" non è un genere musicale, ma una etichetta che indica un fenomeno culturale ed un periodo storico, contrassegnato da stilemi talmente diversi tra loro da contenere di tutto, dai Bauhaus ai Soft Cell? E mi fermo solo per non perdere il filo.)

Esplosi due anni fa in seguito ad un primo album ottimamente confezionato ma facile oggetto di critiche, i tre di Londra erano attesi al varco della seconda opera con un certo scetticismo.

Lo stile di To Lose My Life... - che usciva esattamente due anni fa - non è facile da definire se lo si compara con gli album di band che possono contare su un pubblico simile. La voce di Wikipedia lo paragona a Joy Division, Interpol, Editors, ma anche ad Arcade Fire e Killers, richiamando inoltre Echo & the Bunnymen, Tears for Fears e Teardrop Explodes. Quello che mi pare non si colga da questi accostamenti è il forte elemento epico dei brani dei White Lies, i quali fanno del ritornello antemico un marchio di fabbrica decisivo. Mi vengono in mente forse dei New Model Army molto più pop ma anche più tenebrosi.

Quello che lasciava un po' l'amaro in bocca in quel primo album, che invece ha dei gran punti di interesse, era la scarsa fantasia melodica che fa assomigliare troppo i brani uno all'altro. Il timbro di Harry McVeigh è corposo e profondo ma finisce con l'aggiungere monotonìa ad un album già eccessivamente piatto per scelte stilistiche.

Mi è parso dunque naturale che la band tentasse, con il nuovo Ritual, di rimescolare un po' le carte e puntare su una maggiore diversificazione. La produzione è stata affidata per l'occasione ad Alan Moulder (uno che vanta lavori con Depeche Mode, Erasure, Gary Numan, Jesus and Mary Chain, My Bloody Valentine, Killers, Nine Inch Nails, A Perfect Circle, The Smashing Pumpkins, Puscifer, e una lunga serie di altri nomi di tutto rispetto), con la chiara intenzione di aggiungere qualche elemento che potesse far fare al gruppo il classico salto di qualità.

L'operazione ha funzionato a tratti. Se ad esempio la prima traccia Is Love sposta l'ambiente sonoro su una maggiore presenza dell'elettronica, nulla è stato fatto per lo stile di scrittura della band, che si esprime al meglio solo negli episodi più accattivanti, vedi il riuscito singolo Bigger Than Us. Anzi, il tentativo sembra aver affaticato un po' il disco, con scelte che, vedi proprio il primo brano, suonano un po' forzate. A questo punto, preferivo lo stile coerente del primo album.

Una seconda prova che conferma le potenzialità di una band più che decorosa, ma che non riesce a spiccare il volo. Restando sempre migliore, per le mie orecchie, di cose come Interpol ed Editors, che proprio non riesco a mandar giù.

14 gennaio 2011

Wire, sempre più grandi

Parlare dei Wire è difficile perchè si tende facilmente all'iperbole. Eviterò allora di ricordare che si tratta di uno dei nomi fondamentali del post-punk e di un gruppo che ha avuto una enorme influenza su tutto l'indie degli ultimi trent'anni. Ok.

Red Barked Tree è il dodicesimo album della band, il terzo dal ritorno alle scene avvenuto nel 2003 con l'acclamatissimo Send.

Rispetto a Object47 il disco non rappresenta un grande cambio di percorso, pertanto non c'è molto da aggiungere a quanto avevo detto nell'occasione dell'uscita dell'album precedente.

C'è da registrare l'uscita di Bruce Gilbert, il chitarrista storico che è stato sostituito da Robert Grey. Restano ai loro posti invece gli altri tre membri originari: Colin Newman, voce e chitarra, Graham Lewis, voce e basso, Robert Gotobed, batteria.

L'album infila 11 brani che alternano ricerca, potenza, eleganza, psichedelia, graffi e carezze, nel più puro stile Wire, e lo fa senza cadute di stile e senza perdere mai la tensione. Si ascoltino anche le sole Two Minutes, Moreover e la title track conclusiva, e si avrà la precisa idea di cosa potrebbe e dovrebbe essere la musica oggi, e che invece non è, se non fosse per questi giovanissimi vecchietti.

1. Please Take
2. Now Was
3. Adapt
4. Two Minutes
5. Clay
6. Bad Worn Thing
7. Moreover
8. A Flat Tent
9. Smash
10. Down To This
11. Red Barked Trees

8 gennaio 2011

Eternamente Motörhead

Un ritornello che si ripete ad ogni uscita dei Motörhead (ormai puntualissimi: un disco al biennio) è che la band di Lemmy è sempre uguale a se' stessa e che ogni album è solido, roccioso e bla bla bla.

Un altro luogo comune recita che i dischi gli vengono buoni uno si e l'altro no. Uno spacca, il successivo così cosà, quello dopo spacca di nuovo, e così via.

Se è così, The Wörld is Yours deve necessariamente appartenere ad una uscita "pari", ossia di quelle dignitose ma che non sono proprio un granchè.

In effetti, dopo averlo ascoltato ho rimesso nel lettore il precedente Motörizer e ho dovuto convenire con me stesso che lo preferivo.

Il nuovo album ha un sapore molto garage, più punk&roll rispetto al precedente - che suonava molto più "tirato". Niente di male in questo, sono scelte (e a volte i nostri ci hanno preso rallentando un po'); i pezzi scorrono comunque via che è una bellezza e il terzetto è sempre in ottima forma, ma c'è poco di memorabile in queste tracce: non trovo appigli per aver voglia di afferrare proprio questo disco quando, nei prossimi mesi, mi verrà l'idea di tirar su un CD dei Motörhead scegliendo tra i 25 dischi di studio sfornati dalla band.

Anzi, ora che ci penso è un po' che non riascolto quel gran disco che ancora nel 2004 è stato Inferno... tanto per non andare a ripescare Orgasmatron o Ace of Spades.