23 ottobre 2007

Dave is back

La "nuova vita" di Dave Gahan conosce un nuovo capitolo con l'uscita del suo secondo lavoro solista Hourglass.
Si è detto molto sulle tensioni interne che hanno caratterizzato gli ultimi anni della storia dei Depeche Mode e sulla "caduta agli inferi" di Gahan e relativa riemersione e riscatto.
Paper Monsters del 2003 era stato un gesto di sfida ai vecchi compagni di viaggio ed al proprio demone interiore. Un lavoro non perfetto, discutibile quanto si vuole, ma personale e diretto, che lasciava intravedere buone cose dietro certe ingenuità.

E' quindi ovvio (e dichiarato esplicitamente) lo sforzo di Gahan, con questo secondo lavoro, di affermare le proprie doti di autore e di affrancarsi definitivamente dal ruolo di eterno gregario di Martin Gore, dopo due decenni nei quali la sua voce è stata solo "uno strumento musicale" (parole sue) per i pezzi scritti dall'autore dei Depeche Mode.

L'album riesce quasi del tutto nell'intento, pur non facendo ancora gridare al capolavoro. La prima cosa che salta all'orecchio è il massiccio uso di elettronica, evitato nel precedente Paper Monsters. Evidentemente Gahan non teme più il confronto diretto con il sound del gruppo d'origine, e dunque non si è sentito obbligato ad affidarsi nuovamente alle sonorità rock che avevano caratterizzato il primo album della sua carriera solista. Una ostentazione di sicurezza che si può verificare anche nella stesura dei testi e negli arrangiamenti, più maturi e spesso anche più coraggiosi. Non si può dire lo stesso dal punto di vista strettamente musicale: almeno un paio di brani si salvano solo grazie al sapiente uso dei suoni, e penalizzano, soprattutto dopo ripetuti ascolti, la resa complessiva dell'album.

Hourglass è stato registrato in appena 8 settimane nello studio personale di Dave Gahan con la collaborazione di Christian Eigner e Andrew Phillpott, due musicisti che accompagnano da anni i Depeche Mode dal vivo.

L'album si apre con la sontuosa Saw Something, impreziosita da splendidi archi e da un assolo di chitarra molto d'effetto, opera dell'ospite di lusso John Frusciante. Peccato che il brano sia un po' troppo simile vocalmente a Sister Of Night (ben nota ai fan dei DM, da Ultra).
Segue Kingdom, brano scelto come primo singolo, caratterizzato da una ritmica martellante in puro stile nuovi DM. Molto radiofonico e dalla presa immediata, è un episodio decisamente commerciale ma ottimamente realizzato.
Con Deeper And Deeper si entra nella parte più interessante del disco. Molto elettronica e con un trattamento della voce decisamente inusuale, definisce lo stile dei brani che seguono.
21 Days tiene ancora i piedi ben saldi nell'elettronica. Un blues oscuro e minimale, che ricorda sorprendentemente i lavori di Alan Wilder nel progetto Recoil. Gli spunti di chitarra sembrano presi direttamente dal repertorio di Martin Gore.
Miracles è uno dei brani che si salvano solo grazie all'arrangiamento. Onore al merito però proprio a quest'ultimo: eccellente il trattamento della voce, splendida l'atmosfera crepuscolare.
Use You è il rimando più smaccato ai Depeche: ricorda immediatamente I Feel You, soprattutto per il pattern ritmico. Il confronto tra i due brani va ovviamente a favore del capolavoro del '93, ma ciò nonostante il pezzo si salva per l'ottima interpretazione di Dave.
L'oscura Insoluble fa il paio con Miracles: arrangiamento eccellente, sonorità trattate con perizia, ma a lungo andare si tratta di un brano troppo lento e poco convincente.
Endless riporta una certa energia, con un ritmo shuffle e sonorità alla Dream On.
A Little Lie è uno dei brani migliori dell'album, sia per la splendida linea vocale che per una certa originalità avvertibile nella struttura e nei suoni. Tornano di nuovo alla mente i Depeche Mode, ma non dispiace.
Si chiude con Down, ottimo brano dall'incedere cupo e maestoso che fa ben sperare per il prossimo lavoro solista di Mr. Gahan.

Hourglass non è ancora il meglio che sia lecito aspettarsi da Dave Gahan, ma è certamente un bel passo avanti dopo Paper Monster. Siamo tutti ad attenderlo al varco del terzo album, e speriamo che proprio la consapevolezza di ciò non comprometta il risultato.

Splendente Parov

Parov Stelar è l'intrigante pseudonimo utilizzato dal DJ e produttore Marcus Füreder (nonchè grande capo dell'etichetta Etage Noir Recordings) per la pubblicazione dei suoi lavori come musicista.
Un paio d'anni fa era stato proprio il moniker ad incuriorismi, imbattutomi per caso nella copertina del suo secondo album, Seven and Storm. Quel disco, ascoltato in negozio, mi era parso decisamente splendido.
Normalmente non sono particolarmente interessato a cose così house, ma qui si tratta di qualcosa in più. Nei dischi di Parov Stelar si mescolano infatti una straordinaria fascinazione per il jazz ed una il solida cultura elettronica, giocando sui punti di incontro naturali tra la scuola house austriaca e il piùclassico intrettenimento jazz da club: una certa propensione ai toni languidi ed all'oscurità, accenni malinconici sapientemente calcati, una ideale collocazione nella fumosa ambientazione da banco bar all'ora di chiusura, con in mano l'ultimo bicchiere.

Rough Cuts, primo album del 2004, poneva già in evidenza le ottime potenzialità dell'artista austriaco, capace di sfruttare al meglio le splendide voci a disposizione e gli ottimi strumentisti che partecipavano all'album. Solo qualche scivolone in alcuni brani un po' troppo leggeri impediva che il disco fosse un capolavoro.

Seven and Storm, del 2005, centrava invece la formula, con atmosfere languide e bilanciamento perfetto tra voci ed elettronica.

Shine, di recentissima pubblicazione, conferma i punti di forza del precedente e spazia un po' di più in ambienti elettronici. Il disco ha un avvio che sa più di radiofonico, con un paio di brani piacevolmente vivaci, per poi tornare ad atmosfere più rarefatte, fino a sfruttare, verso la fine, formule house più tradizionali. Un disco variegato che riesce a portare avanti un discorso che rischiava di appesantirsi dopo la seconda uscita, e invece dà prova dell'assoluta maestrìa di Füreder/Parov.

18 ottobre 2007

No Control

Ok. Sono un vecchio romantico, e questo a volte causa dei problemi.
Quando ho scoperto che non c'era ormai alcuna speranza di vedere nelle sale italiane il film di Anton Corbijn sulla vita di Ian Curtis (causa l'assoluta miopia dei distributori nostrani) ho ceduto alla tentazione ed ho comprato il CD con la colonna sonora del film.
Mi sono detto: "non posso accettare di restare completamente escluso da un evento come questo": attendevo il film da almeno un anno.

Già amareggiato dalla mancata uscita del film, è stato ancora più triste scoprire che questa colonna sonora è un mezzo pacco. Almeno per me.

In realtà la qualità del disco, in assoluto, potrebbe dirsi eccellente: il 70% dei pezzi è costituito da capolavori, e del restante 30% almeno la metà è piuttosto interessante.
Peccato però che di nuovo non ci sia praticamente nulla, mentre si era parlato di interessanti inediti dei New Order, recuperati addirittura da vecchie registrazioni dei Joy Division mai completate.

L'album, tra i brani già noti e ampiamente pubblicati, annovera tre canzoni dei Joy Division (Dead Souls, Love Will Tear Us Apart e Atmosphere), What Goes On dei Velvet Underground, la bellissima versione originale di Sister Midnight di Iggy Pop, 2HB dei Roxy Music, Drive In Saturday e Warszawa di Mr. Bowie, Autobahn dei Kraftwerk, She Was Naked dei Supersisters, e le versioni live di Boredom dei Buzzcocks e di Problems dei Sex Pistols. Una parata di classici, naturalmente. Mal assortita però dall'assenza di un vero filo conduttore musicale.

Veniamo allora agli inediti. Evidently Chickentown di John Cooper Clarke è solo un breve testo parlato utilizzato come intro per una nota esibizione televisiva dei Joy Division. I tre brani dei New Order (Exit, Hypnosis e Get Out) rappresentano la delusione più cocente: avrebbero dovuto essere il vero motivo per acquistare il CD, si rivelano invece tre brevi e insignificanti bozzetti di scarso valore. La "cast version" di Transmission è talmente simile all'originale da risultare del tutto inutile. Strano a dirsi, a questo punto la palma di brano più interessante dell'album spetta alla cover di Shadowplay realizzata dai Killers, che hanno saputo ricucirsela addosso senza stravolgerla troppo ma al tempo stesso senza clonarla in modo pedissequo.

Conclusione: se non avete gli originali dei JD, così come di Iggy, dei Roxy, di Bowie e dei Kraftwerk, cospargetevi immediatamente il capo di cenere e fiondatevi a comprarli. Di questa raccola fate pure a meno. Se invece avete 13 anni, i vostri idoli sono i Tokio Hotel, e non conoscete neppure uno dei nomi citati, allora potrebbe essere un buon punto di partenza.

14 ottobre 2007

The last Ministry

E' da qualche giorno che ascolto l'ultima fatica dei Ministry. Ultima in tutti i sensi, visto che lo sticker recita "The last studio album" e che i nostri hanno dichiarato di non avere intenzione di pubblicarne altri.
The Last Sucker è il titolo scelto dal gruppo di Al Jourgensen per il capitolo finale della saga iniziata nei primi anni '80 e proseguita con estro e ferocia per più di un ventennio, tra cambi di formazione e sterzate di genere. Un titolo cattivello, anche se il riferimento può essere doppio: al bersaglio abituale (se non sapete chi è ve lo dico io: Bush) oppure, ironicamente, al disco stesso.
L'album ad un primo ascolto potrebbe sembrare deludente, in quanto non contiene novità di sorta. Una gragnuola di mazzate violentissime di stampo techno-metal si abbatte sull'ascoltatore (da un punto di vista musicale) e sull'amministrazione americana (dal punto di vista dei testi, davvero poco politically correct) così come nei precedenti Rio Grande Blood (2006) e Mark Of The Molè (2004), con i quali viene a completare una ideale trilogia.
L'album è però degno di nota per la perfetta alchimia, per la convinzione straripante e per il mestiere che trasuda. Forse migliore del precedente, che tirava un po' più la corda.
Qualche brano da segnalare in particolare: una aggressiva cover di Roadhouse Blues dei Doors (irriconoscibile fino all'ingresso della voce), la veloce e devastante The Dick Song, il siparietto punk di Die In A Crash, il gran finale di End of Days, pt. 2.
Il resto è il solito ministrone (orrendo neologismo per "formula in stile Ministry": vi piace? no, eh?): attitudine industrial, chitarre heavy pesantemente manipolate, elettronica derivante, basso martellante, campionamenti demoniaci. Se si amano i Ministry, l'acquisto è obbligatorio. Se non li si ama, beh, che ne parliamo a fare. Se invece non sapete chi siano i Ministry, accidenti a voi, compratevi almeno Psalm 69. O The Land of Rape and Honey. Eccheccazz.

6 ottobre 2007

Chi va ancora a vedere i Cure?

Tutti abbiamo avuto un gruppo preferito. Almeno per un po'. Almeno nell'adolescenza.
Uno dei primi dischi che ho acquistato è stato The Head On The Door. Era uscito nel 1985, ma io credo di averlo preso nel 1986. O forse ho comprato prima Standing On The Beach? Mah, comunque era l'86. Sono passati 21 anni e i Cure restano, per questioni di DNA musicale, una delle pietre miliari della mia formazione. Almeno fino a Wish (1992) sono stati anche dei compagni di viaggio affidabili e mai noiosi. Peccato per le delusioni successive: Wild Mood Swings è una raccolta di intuizioni, alcune anche felici, che però non riesce a emozionare ne' a divertire a sufficienza; Bloodflowers è un disco gravemente noioso (mi viene in mente l'aggettivo "senile", che mi pare talmente triste che non so se scriverlo); The Cure mi era parso la pietra tombale su un gruppo che non aveva davvero più nulla da dire. Mi ero consolato con il mirabolante cofanetto della Fiction in 4 CD (un must) e con le riedizioni del vecchio catalogo in doppio CD. Si, mi sono svenato, ma dal mio punto di vista ne era valsa la pena. Tutta un'operazione nostalgia, però, un guardare al passato.
Ora leggo che si annunciano un nuovo album per la primavera del 2008 e un nuovo tour. Peccato, tra l'altro, doverlo scoprire dall'orribile sito ufficiale messo su dalla Geffen.
Il punto è: mi interessa? La formazione promette bene: dopo la cacciata di Roger O' Donnel e di Perry Bamonte, è rientrato Porl Thompson alla chitarra. Non si intravedono tastieristi all'orizzonte. Chissà. Forse Porl riuscirà a raddrizzare la bussola di Robert Smith, ultimamente piuttosto vacillante.
Mentre ci medito, vi segnalo le due date italiane del tour: il 29 febbraio a Roma (Palalottomatica) e il 2 marzo a Milano (Palasharp, ex Mazda Palace). Un pensierino ce lo faccio.

1 ottobre 2007

Radiohead? For download only

La buona notizia è che il nuovo album dei Radiohead è pronto per la pubblicazione. Dell'album si sa che il nome è "In Rainbows" e non molto altro.
L'altra notizia (deciderò poi se definirla cattiva) è che l'album, almeno per ora, non uscirà negli abituali negozi di CD.
Il sito dei Radiohead ci informa infatti che l'album sarà disponibile soltanto in due versioni, entrambe accessibili solo tramite web: download oppure boxset.
L'assoluta novità rispetto ad altre iniziative analoghe è che la versione download non ha un prezzo prefissato: starà a chi scarica decidere quanto pagare per avere In Rainbows sul proprio PC. Questo apre la porta a chi volesse procurarsi l'album a cifre irrisorie o a zero euro, ma consentirà anche a chi apprezzasse molto il gruppo di premiarlo con cifre più alte dei canonici 20 euro.
I Radiohead sono senza contratto discografico dall'uscita di Hail To The Thief e questa mossa sembra un vero e proprio schiaffo all'industria discografica. Neppure Apple si è salvata: il gruppo ha infatti rifiutato anche di mettere in vendita l'album su iTunes.
Insomma, i Radiohead viaggiano assolutamente da soli, ed hanno in un sol colpo scaricato le case discografiche e risolto brillantemente il conflitto con il p2p (perchè scaricare l'album dal mulo quando puoi farlo gratis dal sito ufficiale?).
La versione boxed è tutta un'altra storia: sarà composta di 2 CD, comprendenti anche brani in più rispetto alla versione download, di 2 LP in vinile con gli stessi brani presenti sui CD, e di vario altro materiale (booklet, foto). Anche la versione boxed sarà acquistabile solo dal sito: niente distribuzione nei negozi, almeno per ora. Peccato per il prezzo: 40 sterline, circa 57 euro.

Ora, mi rendo perfettamente conto dei motivi che hanno ispirato l'operazione, e trovo lodevole il tentativo di percorrere strade diverse da quelle tradizionali.
Non capisco però perchè i Radiohead debbano offrirmi solo due soluzioni agli antipodi tra loro: accontentarmi di musica in formato compresso (per quanto a prezzo libero) oppure decidere di spendere un capitale per la versione di lusso. Se tutti seguissero questa via, è ovvio che l'acquisto dell'originale diventerebbe cosa per collezionisti molto danarosi.
Non avrei disprezzato una onesta edizione in doppio CD oppure in doppio vinile, a prezzo dimezzato (20 sterline sarebbe stato ragionevole).

Il problema, dal mio punto di vista, è in ciò che leggo dietro queste scelte. Se accettiamo che sia definitivamente tramontata l'epoca del disco acquistato in negozio (e i segnali sono tanti), si apre uno scenario preoccupante per la diffusione della musica. Quanti artisti potranno sostenere le spese per autoprodursi un album e aspettare che le vendite online rendano un utile vantaggioso? Quanto potrà reggere il modello iTunes? E perchè dovrei adattarmi ad acquistare musica a qualità più bassa di quella del CD?
Non vorrei che dalla crisi dell'industria musicale (che non è crisi economica ma d'identità) ne venisse danneggiata la musica.

Insomma, valuterò poi se questa è, in effetti, una cattiva notizia.