29 novembre 2009

Moltheni, l'ingrediente nuovo e lo sdegnato addio

Ingrediente Novus è il modo in cui Moltheni ha deciso di ripensare il concetto di compilation.

Con 5 album alle spalle, che lo hanno confermato tra i migliori autori italiani del decennio, e con una mezza idea di mollare il proprio pseudonimo e il proprio paese per dedicarsi ad altro (vedi interviste rilasciate di recente), Moltheni ha pensato bene di auto celebrarsi senza farlo in modo sterile, e dunque ecco qua non già una semplice raccolta di pezzi tratti dai suoi dischi, ma 17 registrazioni inedite, riletture insomma, che aggiungono ingredienti nuovi e aromi inaspettati a vecchie ricette.

In alcuni casi il nuovo lavoro di studio è quasi impercettibile: i pezzi che vengono riproposti dal recente I segreti del corallo sono praticamente indistinguibili dagli originali. Ma è con le composizioni più lontane nel tempo - vedi Il circuito affascinante o Nutriente - che l'operazione fornisce i risultati più apprezzabili. Spogliate degli arrangiamenti ridondanti dell'inizio carriera (quando Moltheni cercava la propria identità sotto l'ala protettiva di Carmen Consoli) le canzoni risplendono della luce pulita e abbacinante che caratterizza tutta la produzione più recente di Umberto Giardini.

Una raccolta che riesce dunque tramite lo stratagemma della nuova esecuzione a farsi compatta, tesa, assieme intima e fortemente comunicativa. L'unica eccezione potrebbe essere la versione di Zona monumentale cantata da Vasco Brondi (de Le luci della centrale elettrica), dove l'espressività di quest'ultimo spezza lo stile del contesto.

Moltheni è uno di quelli che si amano o si odiano (per quanto mi ripugni ammetterlo, questo vecchio luogo comune si adatta a qualcuno). Questo però non sempre accade a chi vale qualcosa: ma in questo caso il valore delle canzoni è indiscutibile, anche se posso capire quelli che non sopportano il malessere così precisamente disegnato dall'artista marchigiano.

Una nota per il DVD allegato: contiene tutti i video di Moltheni, due live e un cortometraggio. Non è un semplice accessorio, meriterebbe l'acquisto già da solo.

Ancora Spittle

Non sto a ripetere il solito panegirico per l'opera di ristampa della Spittle Records.
Scavate pure in questo blog alla ricerca delle precedenti uscite della label italiana,
Mi limito dunque in questa occasione a segnalare le ultime tre uscite che riguardano altrettante band italiane degli anni '80.


I Not Moving furono attivi nella prima metà degli anni '80 e giunsero alla Spittle dopo una lunga gavetta live. In questa uscita vengono proposti in un solo CD l'EP del 1985 Black 'N' Wild e il primo LP Sinnermen del 1986.
Pur risentendo di uno stile imitativo e di una pronuncia inglese non proprio convincente, i Not Moving, con la loro mescolanza di generi tra psichedelia, punk, blues, rock'n'roll, proponevano uno spaccato della scena wave italiana che rimasticava tra gli altri Gun Club, X, Bauhaus, Cramps, Siouxsie, dando comunque prova di vitalità e fermento. Il brano Sinnerman da solo, qui riproposto nella versione originale, varrebbe a dimostrare quanto di buono si potesse rintracciare nel sottobosco alternativo dell'epoca.


Gli State Of Art li avevamo già ritrovati nella compilation Milano New Wave 1980-83. Nel CD Dancefloor Statements 1981-1982 vengono ora raccolte tutte le incisioni di studio della band milanese e alcune esecuzioni live finora inedite.

Dediti ad un funk-wave alla A Certain Ratio, ma vicini anche a soluzioni no-wave lontanissime dalla scena italiana dell'epoca (riesco a citare solo i Rinf), gli State Of Art sono stati una delle realtà italiane più originali dell'epoca e vanno certamente riscoperti.


Il trittico si chiude con gli Art Boulevard. La band nasce più tardi, nel 1985, e di conseguenza muta la proposta stilistica.
Il post-punk si fonde con altre suggestioni, con la preponderanza di una fascinazione per i tardi anni '60.

1987 > 1985 a story backwords è il titolo di questa raccolta, nella quale sono inclusi tutti i brani registrati dalla band bergamasca: l'unico EP The Favorite Toy e le varie demo distribuite in cassetta.
Il gruppo seguirà poi una diversa evoluzione con cambi di formazione e nome mutato, ma questa è un'altra storia.

18 novembre 2009

1, x,... xx

Bisognerebbe trovare il modo di vietare ai recensori di creare false aspettative utilizzando associazioni improprie per descrivere un nuovo album.

Per questo disco dei giovanissimi xx ho letto da più parti che ricorderebbe il meraviglioso unico album degli Young Marble Giants.

Riconosco qualche rassomiglianza ma lo preciso subito: i due lavori sono imparagonabili perchè qui manca la straordinaria ingenuità che donava a quel lavoro, costruito su pochissimi suoni e su una scrittura limpida e originale, un'alchimia che oggi è impossibile. E lo è perchè l'ingenuità non esiste più.

Laddove ce n'è, viene attenuata dalla consapevolezza dei propri mezzi, delle mode e dei gusti del pubblico che oggi anche un giovanissimo quartetto come gli xx può possedere e tenere in considerazione nell'autoprodursi un'uscita discografica.

Premesso questo, l'album d'esordio è delizioso: pur essendo assemblato a partire da echi riconoscibili e obbligatori di questi tempi (anni 80 a palate), è capace di alcuni momenti memorabili e con i suoi 38 minuti circa scivola via che è un piacere e invoglia ad ascolti ripetuti. Come primo lavoro non è proprio malaccio, e questi ragazzini vanno tenuti d'occhio.

Secondo commento letto qua e là: gli xx sarebbero spudorati imitatori degli Human League. Per fare una simile affermzaione basta, ovviamente, non aver mai ascoltato un album degli Human League, o forse essersi basati solo sulle foto in cui i quattro ragazzi possono ricordarne il look (ma diciamo la verità: non vi ricordano il look di altri 100 gruppi post-punk / new wave?)

In realtà nelle tracce di questo disco c'è tutt'altro.
Si parte con un intro strumentale debitore dei New Order (quelli di Low Life) ma poi si scivola verso un dark-soul minimale che spazia da reminiscenze dei Cocteau Twins, Cure e Pixies assieme (i singoli Crystalized e Islands sono quasi perfetti) a brani più upbeat che mi ricordano soprattutto gli Everything But The Girl, ma anche tanto soul anni 90/00 (Heart Skipped a Beat, Basic Space), senza disdegnare una puntatina in atmosfere ipno-ambient alla Coil (l'onirica Fantasy). L'intreccio delle due voci è piacevole ed attenua l'effetto ripetizione che pure qua è là viene rischiato. Arriva come una sorpresa la ripresa, quasi a fine album nella bella Infinity, delle sonorità riconoscibilissime del successo di Chris Isaak Wicked Game

Una veloce annotazione sul packaging: per il materiale usato e per l'idea semplice, fanciullesca e di assoluta integrità ricorda i libricini di Munari, e questo basta a renderlo speciale.

14 novembre 2009

L'illusione del volo

Erano i primi anni '80.

Nel belpaese la new wave era una meteora tardiva e bistrattata, appena gratificata dall'interesse di poca stampa specializzata e di un manipolo di appasionati.

Non molti lasceranno cose memorabili, eccezion fatta per la cosiddetta scena fiorentina. E' singolare dunque che in una Bassano del Grappa ben lontana dall'epicentro del fenomeno, i Frigidaire Tango di Carlo Casale e Stefano DalCol contribuissero in modo così concreto: una ventina di canzoni appena, per la verità dotate però di un peso specifico rilevante.

Lontani dagli schemi, ed anche da quelli della stessa new wave stessa, tanto che questa etichetta stava piuttosto stretta al sestetto veneto, attraversato da influenze diverse tra prog rock, sperimentalismo, elettronica minimale, ed echi di una miriade di band anglosassoni.
Di recente mi sono sorpreso, ad un riascolto dell'album d'esordio The Cock (1982), nel notare, soprattutto per le sonorità, l'unico disco che riuscivo ad accostarvi era il primo dei Chrisma, non a caso uno dei pochi lavori italici dell'epoca ad avere un respiro internazionale.

La parabola dei Frigidaire Tango durò pochissimo e terminò già nel 1985. Da allora, per almeno vent'anni, il nome sarebbe rimasto una sorta di mito, vivo solo nella memoria degli appassionati più curiosi. A sorpresa, però, eccoli riapparire qualche anno fa, con lo splendido cofanetto The Freezer Box, raccolta della loro opera omnia, seguito da una reunion per diverse date dal vivo che riscuotono un inaspettato successo.

A coronamento di questa esperienza, giunge ora il nuovo album di studio L'Illusione del volo, prodotto da Giorgio Canali per LaTempesta Dischi. E si tratta di un disco molto gradito, che offre contemporaneamente delle sorprese e delle conferme.

La prima sorpresa è il cantato in italiano anzichè in inglese. Una scelta legata alla tradizione dell'etichetta La Tempesta, ma che si è rivelata molto felice in quanto la resa dei testi è eccellente e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che si può fare ottima musica in italiano senza apparire provinciali.

La seconda sorpresa sta nel fatto che questo non è un disco revivalistico: è un disco di rock italiano pieno d'influenze, ma che non sa di nostalgico.

Le conferme sono legate all'altissima qualità dei brani, al respiro musicalmente ampio e variegato - si contano numerose escursioni nella canzone d'autore, nel rock alternativo, nel post-punk - ed anche all'eccellente fattura del bellissimo packaging, un'attitudine già apprezzata nel box antologico.

Il disco ha qualche flessione soltanto nel mezzo, con un paio di tracce dall'impostazione troppo melodica che va fuori dalle corde naturali della band. Ottimi invece altri episodi, come l'apertura affidata alla convincente Milioni di parole, oppure il quasi-punk alla CCCP di Mescola le razze, o ancora il rock italico con giro di basso pulsante di Natural mente. E potrei citare anche Distogli lo sguardo, Le cose capite, o la splendida Preghiera che muta il Padre Nostro in una invocazione di libertà.

Ma la menzione d'onore va al nostalgico brano di chiusura New wave anthem, il cui testo è costituito da una incredibile girandola di citazioni di nomi di band new-wave. Un esperimento che poteva finire nel tragicomico e che invece ha dato vita ad una splendida canzone che conclude più che degnamente questo bel disco contemporaneo.

12 novembre 2009

This Immortal Coil

This Immortal Coil è un progetto in memoria di John Balance, nato dalla volontà del musicista francese Stéphane Grégoire. Il progetto è stato portato avanti per quattro anni ed ha condotto alla pubblicazione dell'album di cover dei Coil The Dark Age Of Love. L'idea di fondo viene spiegata dallo stesso Grégoire sul sito dedicato al progetto.

"Il 13 Novembre 2004, Jhonn Balance ci ha lasciato. Era, assieme a Peter Christopherson, il membro fondatore dei Coil. La sua morte improvvisa ha segnato la fine di vent'anni di attività e di genio musicale. Ho dunque deciso di lavorare ad un progetto che rendesse tributo a ciò.
Non volevo un'altra compilation che accumulasse pezzi senza una connessione. Il mio desiderio era di trasportare il suo mood musicale unico in un'altro più classico e maggiormente accessibile a tutti. L'idea nel suo complesso era di tributare un omaggio alla musica anche per ciò che c'era dietro, esattamente nel modo sottolineato dagli stessi Coil: 'i Coil sono più che musica'."

Il nome scelto per il progetto evoca una bella realtà degli anni '80 (ed utilizza un gioco di parole di cui ho abusato in passato), come conferma il paragrafo successivo.

"Ho tratto ispirazione dal progetto This Mortal Coil, avviato negli anni ottanta dall'etichetta inglese 4AD. Il manager della label aveva raggruppato alcuni dei propri artisti al fine di riproporre degli standard della musica rock e pop."

Le analogie, a dire il vero, sono ben poche: è diverso il criterio di reclutamento (Ivo Watts Russell aveva radunato solo i propri artisti o comunque personaggi che avevano collaborato a progetti della 4AD), è diverso il bacino del materiale riproposto (che in questo caso è limitato alla sola produzione dei Coil). Ma lo spirito dell'idea è invece molto simile, come viene spiegato subito dopo.

"La maggior parte di quelli che hanno partecipato a questo lavoro conoscevano a malapena i Coil. Il mio proposito era di non rivolgermi a quegli artisti che avevano una connessione esplicita con la musica del gruppo, lasciando stare i musicisti che affermavano di essere gli eredi di questo lavoro seminale. Il mio scopo era di giocare sulla scoperta e di condurre i pezzi dei Coil verso nuove interpretazioni, sbarazzandosi di tutte le influenze. Il rispetto e l'ammirazione che ho per il lavoro dei Coil mi ha condotto a circondarmi di artisti di talento che ammiravo anche per la loro scrittura brillante. Avevo bisogno di personalità forti che mostrassero un desiderio anche inconscio di mettere tutta la propria anima, con grande umiltà e maturità, nella loro partecipazione. L'interpretazione di Bonnie Prince Billy ne è certamente la testimonianza più intensa.
Ognuno degli artisti che hanno partecipato a questo progetto è rimasto profondamente affascinato dalla profondità del repertorio. Sono stati tutti motivati e felici di portare il proprio bagaglio personale e di condividerlo con gli altri.
I membri dei DAAU di Anversa, la virtuosa Christine Ott, Yann Tiersen and Matt Elliott hanno avuto incontri produttivi forti e appassionati, che hanno indotto Yann Tiersen ad offrire a Matt Elliott di partecipare al suo nuovo album Dust Lane. Per completare, e per rafforzare questo spirito di team, l'intero album è stato mixato da Oktopus (Dälek) che sapeva meglio di chiunque altro come mettere assieme il contributo di ciascun membro al progetto.

Peter Christopherson, che nel frattempo è tornato a lavorare con i suoi primi due gruppi Throbbing Gristle e Psychic TV, ha scritto di This Immortal Coil: 'Li AMO. E' la prima volta che qualcuno con talento e sensibilità musicale abbia impiegato tanto tempo ed impegno nel suonare brani dei Coil. Hanno assolutamente superato il mio test peli sul collo rizzati per l'intera durata dell'album. Sono rimasto sbalordito e ammirato.'
Dopo quattro anni dedicati a questo progetto, non potevo chiedere di più."

Così chiude la propria presentazione Stéphane Grégoire. Di mio aggiungo che il commento di Christopherson è sacrosanto, vista l'incredibile intensità di questo lavoro.
Consiglio vivissamente di ascoltarlo sia a chi ha amato i Coil, sia a chi non li ha mai neppure sentiti nominare. E anche chi non li avesse mai apprezzati in modo particolare, potrebbe trovare in queste tracce delicate, evocative e musicalmente ineccepibili, un nuovo inatteso punto di contatto.

8 novembre 2009

La gioia dei Massive Attack

Questa non è la recensione di un concerto. Non è la narrazione di una serata. E' la testimonianza di un rituale di adorazione, il cui oggetto sono stati i Massive Attack, protagonisti di uno splendido show ieri sera al Palasharp di Milano.

In forma strepitosa, con un contorno di voci che dire eccellenti è riduttivo (Martina Topley Bird, Horace Andy, Deborah Miller), accompagnati dal solito strepitoso gruppo di musicisti (tra cui cito sempre volentieri il chitarrista Angelo Bruschini), e graziati da un'acustica impeccabile, i due di Bristol hanno deliziato il pubblico milanese, che ha reso loro omaggio con numerose ovazioni e applausi anche nel bel mezzo delle canzoni, una manifestazione di stima e di affetto che ricordo di aver visto raramente tributato ad una band pop.

Bellissimo il palco, che con poche luci ed un solo screen posto dietro la band ha dimostrato che con mezzi tecnici non faraonici si può aggiungere emozione ad emozione (in particolare le frasi in italiano che scorrevano sullo sfondo hanno colpito tutti, soprattutto quelle riguardanti l'attualità di questo povero paese).

Assolutamente convincenti i pezzi nuovi (sei, se ho contato bene), proposti dal vivo prima dell'uscita del nuovo album (che ormai è slittato a data da destinarsi), notevoli tutti i nuovi arrangiamenti dei brani vecchi, al punto che mi auguro fortemente la realizzazione di un DVD di questo tour.
Inertia Creeps, Teardrop, Angel, Safe From Harm, Unfinished Sympathy e la stessa Karmacoma sono state proposte in versioni modificate - qualcuna in modo sottile, qualche altra in modo macroscopico, ma tutte decisamente efficaci.

Emozioni rare, una serata che in molti ricorderemo a lungo. Si esce sotto la pioggia battente, instupiditi, raggianti, commossi. Lunga vita ai Massive.


NB: le immagini non sono relative alla data di Milano. Per una volta non avevo la macchina fotografica, e me ne sono pentito.

1 novembre 2009

Gli Editors cambiano stile. Ma comunque...

Yawn... Che c'è? Ah? Si? Ooops, scusate, avevo appena finito di ascoltare In This Light And On This Evening, terzo e forse attesissimo album degli Editors, e mi ero appisolato.

Pessima gag, lo so, ma se non la sfrutto ora che mi accingo a parlare di un album davvero soporifero, quando potrò mai giocarmela in futuro?

Ma entriamo nel merito. Reduci da due album a loro volta decisamente noiosi, gli Editors decidono nella loro terza fatica di abbandonare il suono guitar-oriented e di darsi alle tastiere.
Una mossa originale, non fosse che è esattamente la stessa cosa che fecero i Joy Division quando cambiarono il nome in New Order.

Lì, è vero, si parlava di una delle più grandi band di sempre. E il cambio di stile (e di nome) era da imputare alla scomparsa di Ian Curtis. Qui siamo invece di fronte ad uno dei tantissimi emuli che nell'ultimo lustro si sono accumulati sulla lapide del cantante di Manchester ad accendere un lumino e a chiedere un po' di ispirazione. Il nostro evidentemente non collabora, e infatti l'ispirazione è proprio la merce che più latita nei vari Interpol, Editors e compagni (per i quali è stata coniata la brutta etichetta di Neo-Wave).

L'album si compone di nove tracce dalla durata sostenuta (la media è sopra i 4 :30) . Pezzi che sono giocati quasi tutti sugli stessi elementi: batteria minimale, molto sequencer, linee di synth decisamente basiche, la voce di Tom Smith che, pur gradevole quando si tiene sui toni baritonali che sfrutta maggiormente, a volte si lascia andare ad un falsetto alla Coldplay sul quale non ritengo di spendere un commento.

Il risultato, quando tutto va bene (vedi il singolo Papillon) è una scopiazzatura dei New Order che potrà andar bene per un po' nelle discoteche di tendenza. Quando tutto va male, si traduce in lunghi brani ripetitivi che mescolano un po' dei primi Human League, un po' di Coldplay, un po' di New Order, ma senza nulla di memorabile o di profondo.

Bricks And Mortar, con i suoi 6:15 di totale vacuità, è il manifesto del disco e rappresenta tutto ciò che i denigratori della goth-wave ritenevano che quest'ultima fosse: una gran noia con un tipo che fa la voce lugubre.

La sola Eat Raw Meat = Blood Drool esce dagli schemi e propone qualcosa di interessante. Ma è il penultimo pezzo e ormai è troppo tardi.