25 ottobre 2011

La biofilia di Bjork, bella ma noiosa

Gli anni '90 sono finiti da un pezzo. L'ho già detto più volte, che quasi nessuna delle glorie dell'elettronica di quel decennio è arrivata ai giorni attuali in gran forma, e purtroppo la pur sempre affascinante Bjork non riesce a fare eccezione.

Tra le due strade disponibili, ossia cercare di rifare all'infinito il proprio capolavoro (l'eccellente Post), oppure tastare la strada della sperimentazione "colta", l'artista islandese ha scelto la seconda. Con risultati altalenanti, a volte anche molto interessanti (vedi Medùlla, l'album di qualche anno fa composto solo da parti vocali) ma spesso con scarsa risposta da parte del pubblico.

Il nuovo Biophilia è un progetto che mescola diversi media, cosa di per se' non certo nuovissima (vedi vecchie realizzazioni di Brian Eno), ma con un elemento di novità assoluta, ossia che ogni brano è associato ad una "app" (la parola va abbreviata per non suonare vecchi). Le applicazioni sono rappresentazioni interattive del fenomeno fisico che dà il tirolo alla canzone (Moon, Thunderbolt, Cosmogony, etc), oltre a contenere un gioco associato al fenomeno stesso. Numerosi strumenti musicali sono stati creati appositamente per l'album, e la cosa è sembrata così futusristica a quelli di Wired Italia che vi hanno dedicato un articolo nel numero di settembre scorso. Detto così suona tutto molto figo, e da diversi punti di vista lo è. A molti suonerà molto figo anche il fatto che l'album sia stato parzialmente composto con un iPad, ma a me non sembra affatto figo, visto che sono già in troppi ad averlo fatto (vedi Damon Albarn con l'ultimo dei Gorillaz) e soprattutto che lo sbandieramento insistito del marchio Apple sa oramai davvero troppo di sponsorizzazione.

Ma il problema non sta nella strumentazione usata, ne' nella sovrabbondanza di prodotti legati al progetto (CD, app, sito internet, libri, cofanetti e chi più ne ha più ne metta), ne' nei costi delle varie versioni (chi vuol spendere, è liberissimo di farlo). Il problema vero è che quest'album, dal punto di vista musicale, è di una noia mortale. Non bastano i suoni innovativi, che alla fine della fiera suonano come i soliti strumenti virtuali che chiunque può suonare a casa propria (magari sarà affascinante vederli erompere dal vivo dagli strumenti di sui sopra), ne' i gorgheggi elaborati di Bjork, che anzi hanno sempre più un effetto soporifero, per quanto azzardati e stratificati. È proprio la materia musicale proposta ad essere piatta, ripetitiva, poco originale e in definitiva trascurabile.

L'album non mi invoglia neppure ad affrontare un secondo ascolto per potervi dire in quale brano c'è l'unico momento percussivo in vecchio stile break-beat (ma credo sia in Crystalline, scelta come singolo, e probabilmente non a caso).

Ciò detto, attendo un'occasione per vedere la baracca dal vivo, chissà che l'allestimento e la presenza scenica del folletto del nord non mi riaccendano quella vecchia passione, che dopo il giro di Biophilia nel lettore si è data a dormire sonni profondi.

2 ottobre 2011

Mastodon, Mastodon

Il nuovo disco dei Mastodon è giunto a casa, e mentre lui si ambienta in mezzo agli altri, a me prima di parlare della musica viene di dire immediatamente una cosa: l'artwork degli album precedenti era incomparabilmente più bello. Non ho capito questo bisogno di cambiare, e anche se la scultura in legno che fa mostra di se' in copertina è degna d'ammirazione (nel video di Black Tongue ne è documentata la realizzazione), non posso non paragonarla con una certa delusione alle fantastiche illustrazioni di Remission, Leviathan, Blood Mountain o Crack The Skye.

Detto questo, e avendo nel frattempo riascoltato l'album per la settima volta, il mio giudizio oscilla su due binari, o punti di vista, che vado ad esporvi. Prima osservazione: questo disco è stato un bel problema per i Mastodon, essendo (e non potendo essere) il seguito di Crack The Skye. Quest'ultimo era stato un enorme successo di critica e pubblico, e rappresentava la vetta della band. Un gruppo che aveva iniziato facendo di velocità, precisione e brutalità i propri punti di forza, e che aveva sommato via via gli elementi che hanno poi generato il loro attuale, affascinante blender di sludge metal, stoner rock, psichedelia, prog e svariate altre influenze anni '70. Crack The Skye, con la scelta di voci pulite, cori, strutture lunghe da concept album d'altri tempi, era stato un cambiamento importante e un vero meteorite sulla superficie del metal degli anni '00. Impossibile bissarlo, se non copiando se' stessi.

E infatti i Mastodon non cercano di rifare il disco precedente, pur non rinnegandone gli elementi, i quali sono ormai parte integrante del sound della band (vedi soprattutto l'uso dei cori e l'accento sugli elementi più psichedelici), ma non diventano predominanti. L'album a qualcuno potrà sembrare un piccolo passo indietro, caratterizzato com'è da una struttura frammentaria, tipica dei primi album del gruppo. Ma in realtà, come sempre per i Mastodon, The Hunter costituisce un mondo a se', diverso dagli altri e coerente al proprio interno (e questa era la seconda osservazione).

In nessun modo, infatti, si può dire che la qualità sia calata. È vero che c'è molto più lavoro di riff, e che a causa di questa scelta le canzoni risultino più orecchiabili, ma ciò non corrisponde certamente ad una maggiore banalità o a creazioni meno complesse. Il disco, anzi, è molto denso, e i pezzi crescono ascolto dopo ascolto, rivelando via via nuovi dettagli e trame intricate dietro una apparente semplicità. È il lavoro di rifinitura che rende così scorrevoli i brani, grazie a quella attitudine al lavoro di studio che questa band ha sviluppato notevolmente rispetto a molti propri colleghi, e che gli ha consentito anche di sollevarsi di una spanna sopra la media.

Non parlerò di rivoluzione per quest'album come avevo fatto per Crack The Skye: le rivoluzioni si fanno una volta sola, e questa è già in corso. Si tratta però di un disco molto bello, davvero godibile, che renderà molto bene dal vivo e che avrà un suo posto d'onore nella storia di una delle band metal più importanti di questi anni.

PS: e gli perdono pure il quasi plagio di All Tomorrow's Parties in Creature Lives.

1 ottobre 2011

dEUS will keep me close

Keep You Close è il sesto capitolo della mutevole storia dei dEUS, una delle realtà musicali più strane e affascinanti di questo secolo.

La storia della band belga, sulle scene da ormai 17 anni, si divide in due sezioni principali. La prima si apre - discograficamente parlando - nel 1994, con Worst Case Scenario, un album che mescola un tale numero di influenze da non consentire neppure di citarle tutte: si va dal punk al prog, dal jazz al funk, un'orgia zappiana per la quale fu coniato l'appellativo di "Art Rock" (etichetta che il leader Tom Barman ha sempre rigettato). Vi fa seguito In A Bar, Under The Sea, rilasciato nel 1996, che resta sostanzialmente nella scia del debutto. A sorpresa, il successivo The Ideal Crash nel 1999 sfoggia una maggiore accessibilità, pur restando "altro", in un tentativo forse non riuscitissimo di fondare un "nuovo pop", che mescolasse melodia e cerebralità.

Qui la band, segnata da abbandoni e cambi di formazione, chiude il primo ciclo. Torna nel 2005 con Pocket Revolution, stavolta un album perfetto, dove l'alchimia tentata qualche anno prima funziona in modo quasi miracoloso. È uno dei dischi più significativi del decennio, e per inciso sbaraglia le vendite dei precedenti, pur suscitando ovvie discussioni tra i fan della prima ora. Lo segue tre anni dopo Vantage Point, un disco inafferrabile, che bissa in modo inaspettato le vendite del precedente pur essendo melodicamente meno accattivante e più sperimentale in senso stretto.

A questo punto, non sapevo predire cosa avrebbero combinato i dEUS. Temevo che in qualche modo si smarrissero, come pure era possibile e lecito. Invece, il nuovo Keep You Close non mi delude affatto, nel senso che mi ha spiazzato ma anche affascinato. Al primo ascolto mi sono chiesto cosa fosse, quella sorta di reazione "mah" che danno alcuni grandi dischi (ma anche alcune grosse boiate). Poi l'ho imparato a memoria in tre giorni. Mi ha riconciliato, come ogni tanto mi accade, con il concetto di pop. È un pop con radici nella musica alta, ma non per questo meno godibile. È musica sperimentale con momenti orecchiabili, ma non per questo meno interessante. È musica di dettagli, di testi cesellati con cura, ma anche una musica in qualche istante viscerale, inevitabile ma imprevedibile. Un disco di cose nuove, nell'unico modo in cui si può suonare nuovi in questo stanchissimo 2011.