Difficile, al 30° album di studio, dire qualcosa di nuovo su una band che, diceva John Peel, "non ha mai fatto un album brutto". Giudizio opinabile come qualsiasi giudizio personale, ma non troppo lontano dalla realtà se si considera che si tratta di un pensiero piuttosto condiviso dalla critica e dai fan della band di Mark E. Smith.
Diciamo allora un paio di notizie. Si, questo è proprio il numero 30, senza ombra di dubbio (secondo i miei calcoli, pare invece proprio il 29°). Aggiungendo live, raccolte e quant'altro, il numero triplica, se non peggio. Incredibile a dirsi, questo è il quarto album di fila con la medesima formazione. Un assoluto record per un gruppo che possiede addirittura una pagina dedicata ai propri cambi di organico su Wikipedia.
Re-Mit si segnala, musicalmente parlando, soprattutto per l'abbandono della formula "basso rutilante e cattivo, chitarra rombante, voce incazzosa" che era diventata un po' stanca sul precedente Ersatz G.B (ma aveva dato il meglio nell'eccellente Your Future Our Clutter), e per la maggiore varietà di stili ed esperimenti. Spesso la linea di basso resta indietro e dà spazio ai notevoli riff chitarristici (mai banali in questa raccolta). Il mood sembra in generale meno astioso, con qualche asperità in meno e qualche vaga cupezza in più. Ma sono sfumature. Al solito, la compagna di Smith e tastierista Elena Poulou interviene con la propria voce in un brano; come al solito, Smith se la prende in un altro con qualche gruppo che non gli va giù (stavolta tocca agli LCD: "James Murphy is their chief/They show their bollocks when they eat").
Per il resto, posso solo consigliarvi di aggiungerlo alla "collezione delle figurine" dei vostri album dei Fall, senza tema di rimanere troppo delusi. E poi la copertina è brutta abbastanza da meritare di essere posta di fianco alla precedente.
Visualizzazione post con etichetta The Fall. Mostra tutti i post
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2 giugno 2013
30 dicembre 2011
Ciao 2011, ovvero il mega post di fine anno
Ho sempre avuto sulle balle i consuntivi di fine anno (parlo di quelli musical-discografici, ma in altra sede potrei estendere il concetto...).
Non mi metterò dunque a dire cosa salvare e cosa buttare dell'anno passato ne' a tirare giù una classifica dei dischi "importanti". Questa roba non frega a nessuno, e poi in quelle liste si finisce sempre per dire delle cavolate pazzesche (non che non ne dirò lo stesso).
Ho però da parte un po' di titoli di dischi ascoltati, digeriti e per i quali non ho trovato tempo di dare conto qui. Il mega post di fine anno lo dedico dunque a questi album, poche righe ciascuno (almeno, spero di contenermi). Si tratta soprattutto di raccolte e ristampe, mi spiace se a volte so un po' di muffa ma di roba attualissima ho ascoltato proprio poco.
Per ragioni di comodità, procedo a ritroso: da quelli usciti a fine 2011, ad un disco di fine dicembre 2010 che ho amato molto e che per me rientra a diritto nelle uscite di gennaio.
Kate Bush: 50 Words For Snow
Per il suo secondo album di inediti in 18 anni (il precedente era stato Aerial nel 2005, e prima ancora The Red Shoes nel 1993), Kate Bush sceglie di proporci 7 brani lunghi, accomunati da un legame con la neve, anzi, come dice la stessa autrice, "appoggiati su uno sfondo di neve che cade". È un disco invernale ma certo non "natalizio", che si ammanta del fascino di un panorama in bianco e nero, lentamente e silenziosamente coperto dal manto bianco, ma certo non "freddo". La Bush inanella una dopo l'altra sette composizioni ammalianti, dense ma ricche di spazi, caratterizzate da una crescita lenta ma ben sviluppata, e impreziosite da una voce che a 53 anni non conosce incrinature e dai dettagli lasciati qua e là con sapienza dal manipolo di musicisti di valore che la accompagnano. Palma d'oro per la title track, una specie di scherzo teatrale, dove vengono snocciolati 50 nomi per la neve (di cui parte si sospetta inventati), e per Snowed in at Wheeler Street, efficace duetto con Elton John tra due amanti costretti alla separazione.
The Fall: Ersatz GB
Cosa dire del ventottesimo (o ventinovesimo? i pareri discordano...) album di studio dei Fall? Premesso che qualsiasi disco della band di Mark E. Smith, anche il peggiore, è sempre un disco degno di essere ascoltato, e aggiunto che questo non è per nulla il peggiore, sono tentato di dirvi solo che dovreste ascoltarlo, così come tutti gli altri precedenti e probabilmente quelli che seguiranno. Anzi, vi dirò proprio e soltanto questo.
La formazione è la stessa di Your Future Our Clutter (2010) e Imperial Wax Solvent (2009), un primato di longevità per i Fall. Anche la ricetta è la medesima dei due predecessori: rock di stampo assortito, su solidi giri di basso e con la solita, inconcepibile voce ubriaca di Smith a narrare storie strampalate.
Throwing Muses: Anthology
La prima raccolta retrospettiva dei Throwing Muses arriva in coincidenza con il 25ennale del primo album della band della 4AD. Non c'è molto da dire sulla band di Tanya Donnelly e Kristin Hersch che non sia già storia: 8 album di cui l'ultimo nell'ormai lontano 2003, sconfinamenti della Donnelly nelle Breeders e nei Belly (due ottimi side project), una sezione ritmica interessante nelle mani di Dave Narcizo e un songwriting difficilmente inquadrabile se non nella tradizione post punk femminile (Slits, Raincoats), dalla quale comunque si discosta in modo originale. Il doppio CD si giova di una bella edizione cartonata, e di una selezione accurata da parte della band, che in due dischi presenta una scelta di brani dagli album (CD1) ed una raccolta di canzoni che altrimenti sarebbero state disponibili solo in singoli, EP o colonne sonore (CD2). Non è un "greatest hits": mancano alcuni successi, anzi a volte sono stati privilegiati brani meno noti ma evidentemente più cari alla band. Dire che è una bella raccolta è poco. Io l'ho comprato e me lo sono spupazzato un bel po'.
Sixteen Horsepower: Yours, Truly
Sono passati 6 anni dallo scioglimento ufficiale della band di David Eugene Edwards e soci, e 9 anni dal loro ultimo album di studio. Sembra dunque tardiva questa antologia, ma il fatto che il nostro sia ancora in giro con gli splendidi Wovenhand ne fa una scelta dopotutto tempestiva.
La logica applicata per selezionare la compilation è a un tempo simile e diversa da quella del doppio dei Throwing Muses. Il secondo disco è anche qui dedicato agli inediti, che in questo caso sono spesso versioni alternative. Il primo è stato affidato non alle preferenze dei membri della band, ma a quelle del pubblico, che è stato invitato a votare i propri brani preferiti. Ne è uscita una raccolta assassina (per quanto riguarda il primo disco), che è per una volta un vero "best of", ma rappresenta ovviamente un elemento inutile per chiunque possieda la discografia completa. Il secondo disco è interessante, e molto goloso per i fan, ma non all'altezza del primo. Un oggetto un po' strano, nobilitato soprattutto dall'eccellente realizzazione grafica.
Tom Waits: Bad As Me
Il buon vecchio Tom è tornato con un disco di inediti dopo ben 7 anni di silenzio (Real Gone era datato 2004) e una raccoltona in tre CD nel mezzo che aveva quasi fatto temere un ritiro.
L'album è godibile, quasi orecchiabile in confronto alle prove del Waits "seconda maniera".
Una raccolta di belle canzoni che non aggiunge nulla di importante a quanto sappiamo già del "cantautore di Pomona", ma che rinfranca i fan che iniziavano a sentirsi orfani.
Si viaggia tra ballate oscure, momenti di ubriachezza ritmica, crooning malinconico e veloci passaggi all'inferno: gli ingredienti di casa Waits sono serviti in tavola con la perizia di un grande chef.
Mick Harvey: Sketches From The Book Of The Dead
Harvey è noto ai più come (ex) chitarrista dei Bad Seeds di Nick Cave. In realtà ha avuto una carriera ben più complessa, anche se vissuta in buona parte all'ombra del Re Inchiostro: chitarrista dei Boys Next Door, poi dei Birthday Party, infine dei Bad Seeds, ha accompagnato il compagno più famoso per la bellezza di 36 anni (dal 1973 al 2009).
Nel frattempo ha prestato la propria opera anche nei Crime And The City Solutions, e si è pure levato lo sfizio di una carriera solista: quattro dischi a suo nome fino ad ora, i primi due dedicati a reinterpretazioni delle canzoni di Serge Gainsbourg, altri due a cover di vari altri artisti, fatta eccezione per sole 4 canzoni originali. Questo quinto disco è dunque il primo vero album di Mick Harvey, se così vogliamo dire. Costato quattro anni di gestazione, l'album è un concept su un argomento difficile ma caro ad un certo pubblico: la dipartita da questo mondo. Musicalmente il disco è caratterizzato da ritmi lenti, sonorità prevalentemente acustiche e uno stile in generale più intimo di quello tipico degli altri album di Harvey. Non ho gridato al miracolo per le canzoni, che fanno sentire una certa mancanza di originalità, ma il disco nell'insieme è apprezzabile e per qualche motivo mi è caro. Sarà per il primo brano, dedicato a Rowland S. Howard, che da solo vale l'intero CD.
Big Sexy Noise: Trust The Witch
Il secondo capitolo della band capitanata da Lydia Lunch conferma quanto espresso nel primo album, e ne rappresenta se possibile una versione ancora più radicale.
Noise, no wave, hardcore, garage, sono tutte etichette che si potrebbero spendere per descrivere ciò che semplicemente è la fusione di rabbia ed erotismo, ossia cià che da sempre predica la strega evocata dal titolo.
Una dimostrazione di energia e di resistenza allo scorrere del tempo che fa quasi impressione.
Assieme alla ristampa del classico 13.13 ad opera de Le Son Du Maquis, è stato per me uno dei titoli imprenscindibili del 2011.
The Raincoats: Odyshape
Da quanto tempo mancava una ristampa di questo classico del 1981? Almeno 18 anni, a quanto riporta Discogs, e ci credo senza problemi visto che non ne avevo mai visto una copia in circolazione.
Come sempre quando parlo di ristampe, ho qui la scelta tra rievocare la storia dell'album e soprassedere con la considerazione che esiste abbondante materiale in rete per chi volesse approfondire.
Scelgo per una volta la seconda opzione, limitandomi a dire che l'anarchia schizoide di quest'album è delizia per le mie orecchie.
Nota di merito per l'edizione, sobriamente filologica, custodia in cartone con libretto ben fatto.
Radiohead: The King Of Limbs
Se ne è parlato così tanto che al momento avevo evitato di aggiungere le mie modeste impressioni. A distanza di molti mesi, posso dire che confermo l'idea che sia un passo falso.
Avevo ascoltato In Rainbows in rotazione continua (pur con una iniziale diffidenza). Questo invece non è riuscito a entrarmi in testa ne' a farsi amare.
I motivi sono più o meno quelli detti da tutti: poca unitarietà, forse troppi esperimenti mal coniugati tra loro. Le otto composizioni sono tutte interessanti e al di sopra della media di quasi qualsiasi band in attività, ma questo si può dire anche per qualunque b-side inclusa nei loro singoli.
Questo non sembra un album, tutto qua. Tra qualche anno lo ascolteremo con nostalgia.
Oceansize: Self preserved while the bodies float up
Un titolo che nonostante gli sforzi non ho ancora imparato. Eppure il disco l'ho ascoltato molto. Uscito a dicembre 2010, ho iniziato ad ascoltarlo i primi di gennaio in un viaggio in treno. Al primo impatto mi sono detto che si trattava di un capitolo decisamente interessante nello sviluppo della loro discografia, un passo difficile ma fatto nella giusta direzione. Poi ho scoperto che gli Oceansize si erano sciolti nel darlo alle stampe, e ci sono rimasto male: il discorso dello "sviluppo" si ferma qui. Peccato, perchè pur essendo potenzialmente insidioso modificarsi all'interno del proprio stesso elemento - la complessità della proposta e l'originalità delle loro composizioni fanno sì che queste rischino sempre di avvitarsi su se' stesse, come era accaduto parzialmente nel pur bello Everyone Into Position - qui alla band era riuscito il miracolo di innovarsi restando se' stessi. Non semplicemente "il quarto disco degli Oceansize", dunque, ma una raccolta di brani coraggiosi, di musica con mille rimandi ma senza riferimenti espliciti o agganci facili. L'epitaffio di una band che vanta innumerevoli tentativi (falliti) di imitazione.
Postilla: quelli che non mi sono proprio andati giù.
1. Un sincero fanculo ai Rammstein che hanno pensato bene di partorire una inutilissima raccolta (con inedito, naturalmente) in non so quante versioni a prezzi letteralmente incredibili. La carriera degli allegri cattivoni teutonici è in fase calante e questa ne è solo una conferma.
2. Mi sono sorbito un paio di volte l'album di James Blake cercando di capire cosa ci sentissero tutti di nuovo e di entusiasmante, ma non ho trovato ne' novità ne' emozioni. Un esercizio di stile, anzi, piuttosto stantìo.
3. Mi ha deluso il nuovo album di Gary Numan, a quanto pare fatto di materiale scartato da incisioni precedenti - e non me ne sorprendo.
4. Non dico nulla sull'album di Lou Reed e Metallica per non aggiungermi inutilmente al coro degli scontenti. Come disco di Reed non è male. Cosa ci facciano i Metallica non si sa.
5. Sonno profondo, ma proprio profondissimo, sul versante italiano: mi ha annoiato anche l'album di Dente, che al quarto giro è sempre se' stesso ma inizia a stancarmi, mentre ho decisamente aborrito quella bruttura sonora che è Il sorprendente album d'esordio dei Cani (titolo carino, va detto). Cito questi due tanto per fare due esempi ma potrei proseguire. Mi pare che l'inseguimento di mode e tendenze stia alla fine ammazzando la pur fievole ventata di novità che c'era stata negli ultimi anni. Che poi in Italia esca anche qualche bel disco, vabbè, lo sappiamo: succede anche nelle peggiori famiglie. (PS: mi si chiede qualche esempio, eccoli qua: Zen Circus, sulla fiducia il Teatro degli Orrori, e nonostante tutto anche i Verdena.)
Non mi metterò dunque a dire cosa salvare e cosa buttare dell'anno passato ne' a tirare giù una classifica dei dischi "importanti". Questa roba non frega a nessuno, e poi in quelle liste si finisce sempre per dire delle cavolate pazzesche (non che non ne dirò lo stesso).
Ho però da parte un po' di titoli di dischi ascoltati, digeriti e per i quali non ho trovato tempo di dare conto qui. Il mega post di fine anno lo dedico dunque a questi album, poche righe ciascuno (almeno, spero di contenermi). Si tratta soprattutto di raccolte e ristampe, mi spiace se a volte so un po' di muffa ma di roba attualissima ho ascoltato proprio poco.
Per ragioni di comodità, procedo a ritroso: da quelli usciti a fine 2011, ad un disco di fine dicembre 2010 che ho amato molto e che per me rientra a diritto nelle uscite di gennaio.

Per il suo secondo album di inediti in 18 anni (il precedente era stato Aerial nel 2005, e prima ancora The Red Shoes nel 1993), Kate Bush sceglie di proporci 7 brani lunghi, accomunati da un legame con la neve, anzi, come dice la stessa autrice, "appoggiati su uno sfondo di neve che cade". È un disco invernale ma certo non "natalizio", che si ammanta del fascino di un panorama in bianco e nero, lentamente e silenziosamente coperto dal manto bianco, ma certo non "freddo". La Bush inanella una dopo l'altra sette composizioni ammalianti, dense ma ricche di spazi, caratterizzate da una crescita lenta ma ben sviluppata, e impreziosite da una voce che a 53 anni non conosce incrinature e dai dettagli lasciati qua e là con sapienza dal manipolo di musicisti di valore che la accompagnano. Palma d'oro per la title track, una specie di scherzo teatrale, dove vengono snocciolati 50 nomi per la neve (di cui parte si sospetta inventati), e per Snowed in at Wheeler Street, efficace duetto con Elton John tra due amanti costretti alla separazione.

Cosa dire del ventottesimo (o ventinovesimo? i pareri discordano...) album di studio dei Fall? Premesso che qualsiasi disco della band di Mark E. Smith, anche il peggiore, è sempre un disco degno di essere ascoltato, e aggiunto che questo non è per nulla il peggiore, sono tentato di dirvi solo che dovreste ascoltarlo, così come tutti gli altri precedenti e probabilmente quelli che seguiranno. Anzi, vi dirò proprio e soltanto questo.
La formazione è la stessa di Your Future Our Clutter (2010) e Imperial Wax Solvent (2009), un primato di longevità per i Fall. Anche la ricetta è la medesima dei due predecessori: rock di stampo assortito, su solidi giri di basso e con la solita, inconcepibile voce ubriaca di Smith a narrare storie strampalate.

La prima raccolta retrospettiva dei Throwing Muses arriva in coincidenza con il 25ennale del primo album della band della 4AD. Non c'è molto da dire sulla band di Tanya Donnelly e Kristin Hersch che non sia già storia: 8 album di cui l'ultimo nell'ormai lontano 2003, sconfinamenti della Donnelly nelle Breeders e nei Belly (due ottimi side project), una sezione ritmica interessante nelle mani di Dave Narcizo e un songwriting difficilmente inquadrabile se non nella tradizione post punk femminile (Slits, Raincoats), dalla quale comunque si discosta in modo originale. Il doppio CD si giova di una bella edizione cartonata, e di una selezione accurata da parte della band, che in due dischi presenta una scelta di brani dagli album (CD1) ed una raccolta di canzoni che altrimenti sarebbero state disponibili solo in singoli, EP o colonne sonore (CD2). Non è un "greatest hits": mancano alcuni successi, anzi a volte sono stati privilegiati brani meno noti ma evidentemente più cari alla band. Dire che è una bella raccolta è poco. Io l'ho comprato e me lo sono spupazzato un bel po'.

Sono passati 6 anni dallo scioglimento ufficiale della band di David Eugene Edwards e soci, e 9 anni dal loro ultimo album di studio. Sembra dunque tardiva questa antologia, ma il fatto che il nostro sia ancora in giro con gli splendidi Wovenhand ne fa una scelta dopotutto tempestiva.
La logica applicata per selezionare la compilation è a un tempo simile e diversa da quella del doppio dei Throwing Muses. Il secondo disco è anche qui dedicato agli inediti, che in questo caso sono spesso versioni alternative. Il primo è stato affidato non alle preferenze dei membri della band, ma a quelle del pubblico, che è stato invitato a votare i propri brani preferiti. Ne è uscita una raccolta assassina (per quanto riguarda il primo disco), che è per una volta un vero "best of", ma rappresenta ovviamente un elemento inutile per chiunque possieda la discografia completa. Il secondo disco è interessante, e molto goloso per i fan, ma non all'altezza del primo. Un oggetto un po' strano, nobilitato soprattutto dall'eccellente realizzazione grafica.

Il buon vecchio Tom è tornato con un disco di inediti dopo ben 7 anni di silenzio (Real Gone era datato 2004) e una raccoltona in tre CD nel mezzo che aveva quasi fatto temere un ritiro.
L'album è godibile, quasi orecchiabile in confronto alle prove del Waits "seconda maniera".
Una raccolta di belle canzoni che non aggiunge nulla di importante a quanto sappiamo già del "cantautore di Pomona", ma che rinfranca i fan che iniziavano a sentirsi orfani.
Si viaggia tra ballate oscure, momenti di ubriachezza ritmica, crooning malinconico e veloci passaggi all'inferno: gli ingredienti di casa Waits sono serviti in tavola con la perizia di un grande chef.

Harvey è noto ai più come (ex) chitarrista dei Bad Seeds di Nick Cave. In realtà ha avuto una carriera ben più complessa, anche se vissuta in buona parte all'ombra del Re Inchiostro: chitarrista dei Boys Next Door, poi dei Birthday Party, infine dei Bad Seeds, ha accompagnato il compagno più famoso per la bellezza di 36 anni (dal 1973 al 2009).
Nel frattempo ha prestato la propria opera anche nei Crime And The City Solutions, e si è pure levato lo sfizio di una carriera solista: quattro dischi a suo nome fino ad ora, i primi due dedicati a reinterpretazioni delle canzoni di Serge Gainsbourg, altri due a cover di vari altri artisti, fatta eccezione per sole 4 canzoni originali. Questo quinto disco è dunque il primo vero album di Mick Harvey, se così vogliamo dire. Costato quattro anni di gestazione, l'album è un concept su un argomento difficile ma caro ad un certo pubblico: la dipartita da questo mondo. Musicalmente il disco è caratterizzato da ritmi lenti, sonorità prevalentemente acustiche e uno stile in generale più intimo di quello tipico degli altri album di Harvey. Non ho gridato al miracolo per le canzoni, che fanno sentire una certa mancanza di originalità, ma il disco nell'insieme è apprezzabile e per qualche motivo mi è caro. Sarà per il primo brano, dedicato a Rowland S. Howard, che da solo vale l'intero CD.

Il secondo capitolo della band capitanata da Lydia Lunch conferma quanto espresso nel primo album, e ne rappresenta se possibile una versione ancora più radicale.
Noise, no wave, hardcore, garage, sono tutte etichette che si potrebbero spendere per descrivere ciò che semplicemente è la fusione di rabbia ed erotismo, ossia cià che da sempre predica la strega evocata dal titolo.
Una dimostrazione di energia e di resistenza allo scorrere del tempo che fa quasi impressione.
Assieme alla ristampa del classico 13.13 ad opera de Le Son Du Maquis, è stato per me uno dei titoli imprenscindibili del 2011.

Da quanto tempo mancava una ristampa di questo classico del 1981? Almeno 18 anni, a quanto riporta Discogs, e ci credo senza problemi visto che non ne avevo mai visto una copia in circolazione.
Come sempre quando parlo di ristampe, ho qui la scelta tra rievocare la storia dell'album e soprassedere con la considerazione che esiste abbondante materiale in rete per chi volesse approfondire.
Scelgo per una volta la seconda opzione, limitandomi a dire che l'anarchia schizoide di quest'album è delizia per le mie orecchie.
Nota di merito per l'edizione, sobriamente filologica, custodia in cartone con libretto ben fatto.

Se ne è parlato così tanto che al momento avevo evitato di aggiungere le mie modeste impressioni. A distanza di molti mesi, posso dire che confermo l'idea che sia un passo falso.
Avevo ascoltato In Rainbows in rotazione continua (pur con una iniziale diffidenza). Questo invece non è riuscito a entrarmi in testa ne' a farsi amare.
I motivi sono più o meno quelli detti da tutti: poca unitarietà, forse troppi esperimenti mal coniugati tra loro. Le otto composizioni sono tutte interessanti e al di sopra della media di quasi qualsiasi band in attività, ma questo si può dire anche per qualunque b-side inclusa nei loro singoli.
Questo non sembra un album, tutto qua. Tra qualche anno lo ascolteremo con nostalgia.

Un titolo che nonostante gli sforzi non ho ancora imparato. Eppure il disco l'ho ascoltato molto. Uscito a dicembre 2010, ho iniziato ad ascoltarlo i primi di gennaio in un viaggio in treno. Al primo impatto mi sono detto che si trattava di un capitolo decisamente interessante nello sviluppo della loro discografia, un passo difficile ma fatto nella giusta direzione. Poi ho scoperto che gli Oceansize si erano sciolti nel darlo alle stampe, e ci sono rimasto male: il discorso dello "sviluppo" si ferma qui. Peccato, perchè pur essendo potenzialmente insidioso modificarsi all'interno del proprio stesso elemento - la complessità della proposta e l'originalità delle loro composizioni fanno sì che queste rischino sempre di avvitarsi su se' stesse, come era accaduto parzialmente nel pur bello Everyone Into Position - qui alla band era riuscito il miracolo di innovarsi restando se' stessi. Non semplicemente "il quarto disco degli Oceansize", dunque, ma una raccolta di brani coraggiosi, di musica con mille rimandi ma senza riferimenti espliciti o agganci facili. L'epitaffio di una band che vanta innumerevoli tentativi (falliti) di imitazione.
Postilla: quelli che non mi sono proprio andati giù.
1. Un sincero fanculo ai Rammstein che hanno pensato bene di partorire una inutilissima raccolta (con inedito, naturalmente) in non so quante versioni a prezzi letteralmente incredibili. La carriera degli allegri cattivoni teutonici è in fase calante e questa ne è solo una conferma.
2. Mi sono sorbito un paio di volte l'album di James Blake cercando di capire cosa ci sentissero tutti di nuovo e di entusiasmante, ma non ho trovato ne' novità ne' emozioni. Un esercizio di stile, anzi, piuttosto stantìo.
3. Mi ha deluso il nuovo album di Gary Numan, a quanto pare fatto di materiale scartato da incisioni precedenti - e non me ne sorprendo.
4. Non dico nulla sull'album di Lou Reed e Metallica per non aggiungermi inutilmente al coro degli scontenti. Come disco di Reed non è male. Cosa ci facciano i Metallica non si sa.
5. Sonno profondo, ma proprio profondissimo, sul versante italiano: mi ha annoiato anche l'album di Dente, che al quarto giro è sempre se' stesso ma inizia a stancarmi, mentre ho decisamente aborrito quella bruttura sonora che è Il sorprendente album d'esordio dei Cani (titolo carino, va detto). Cito questi due tanto per fare due esempi ma potrei proseguire. Mi pare che l'inseguimento di mode e tendenze stia alla fine ammazzando la pur fievole ventata di novità che c'era stata negli ultimi anni. Che poi in Italia esca anche qualche bel disco, vabbè, lo sappiamo: succede anche nelle peggiori famiglie. (PS: mi si chiede qualche esempio, eccoli qua: Zen Circus, sulla fiducia il Teatro degli Orrori, e nonostante tutto anche i Verdena.)
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5 luglio 2008
Mark E. Smith is a 50 year old man

Tra dischi di studio, live, raccolte, EP, singoli e cofanetti si superano tranquillamente i 100 titoli (ed una visita al sito non ufficiale ve ne darà la prova).
Sorprende dunque che Imperial Wax Solvent, ventisettesimo album di studio della band, riesca ancora a mostrare qualcosa di fresco ed interessante.
Intendiamoci: non sempre il nostro riesce a convincere con album eccellenti, ma qualche zampata da vecchio leone, ed una indomita attitudine punk/new wave che pare mai sopita, riescono a rendere dignitosa qualsiasi nuova prova.
E non va dimenticato che, pur rassegnati al fatto che l'ultimo vero capolavoro è archiviabile all'incirca nel 1985, con l'ottimo This Nation's Saving Grace, anche di recente qualche bel guizzo c'è stato: album come The Unutterable (2000) e The Real New Fall LP (2003) sono delle pregevoli acquisizioni nella discografia dei Fall.
Imperial Wax Solvent segue all'anomalo Reformation Post TLC, un album registrato in fretta e furia dopo una litigata che aveva deciso Smith a licenziare l'intero gruppo e ad assumere dei nuovi musicisti americani per le sessioni. Il risultato era stato un disco incerto e a tratti debole, ma godibile e con qualcosa addirittura di adolescenziale, come se l'ennesima "reformation" avesse concesso una vera nuova ripartenza.
Qui però la formazione è nuovamente rimaneggiata, proseguendo nella tradizione che vuole Smith unico membro stabile. Restano della precedente esperienza la tastierista (e moglie di Smith) Elena Poulou e il bassista Dave Spurr. Il chitarrista è Pete Greenway (che era apparso soòo in alcune tracce di Reformation) mentre il batterista è Keiron Melling.
Le conzoni in gran parte ricalcano, tra alti e bassi, stilemi tipici dei Fall, con Mark E. Smith nell'abituale registro tra il declamatorio e l'ubriaco.
Spiccano tra le altre Alton Towers, che apre degnamente l'album con un giro di basso ipnotico in primo piano ed effetti sonori sullo sfondo; 50 Year Old Man, che in 11 minuti racchiude tre sezioni molto diverse tra loro e il cui testo ci ricorda che il nostro ha raggiunto il mezzo secolo di età ma non intende mettere la testa a posto; I've Been Duped, pezzo atipico, molto vicino ai Sonic Youth, con la voce di Elena Poulou che si sostituisce a quella di Smith, e Taurig, un'interessante composizione completamente elettronica della Poulou.
Per il resto siamo su territori noti, con qualità nella media.
L'album isomma rispecchia con precisione ciò che ne disse anni fa John Peel: "Always the same, always different".
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