24 novembre 2012

Il Battiato stagionato

Ogni volta che esce un album di Franco Battiato, vedo schierarsi due opposte fazioni: quelli per i quali ogni opera del Maestro è eccezionale a prescindere, e quelli che pur con qualche distinguo storcono il naso per i testi, ritenuti colpevoli di vacuo intellettualistimo e indigeribile misticismo.

Onde non aggiungermi a tale stantìa diatriba (e pur affermando di striscio che condivido qualche dubbio nei riguardi della collaborazione sgalambriana), mi concentrerò sull'aspetto musicale di questo nuovo Apriti Sesamo.

L'album giunge a 5 anni dal precedente Il Vuoto, un tempo piuttosto lungo per il musicista siciliano (non calcolo Fleurs 2 ne' Inneres Auge trattandosi di album di rivisitazioni proprie e altrui). Sembra che in questo lasso di tempo Battiato abbia deciso di dare una sostanziale svolta al proprio stile compositivo, ed è questa la novità che più mi intriga a prescindere dall'analisi delle liriche.

La produzione "pop" di Battiato, a partire dall'ottimo Caffè de la Paix (che risale ad ormai quasi due decenni or sono), si era infatti caratterizzata per una forte connotazione elettronica, mostrando spesso caratteristiche di avanguardia nell'uso originale della strumentazione di studio e per commistioni molto interessani tra pulsazioni di sequencer, sprazzi di sintetizzatori e inserti molto più classici.

Questo disco sembra voler chiudere quella stagione, tornando ad arrangiamenti meno elettronici e più vicini a quelli degli anni '80, almeno nei risultati sonori, visto che oggi è spesso difficile risalire a quali strumenti effettivamente eseguano cosa, ma l'aver affidato le parti di basso a Faso (che per i meno attenti ricordo essere il bassista di Elio e le Storie Tese) e quelle di batteria a Gavin Harrison (batterista dei Porcupine Tree) non è certo una scelta casuale.

L'album si discosta dunque dai precedenti in modo marcato, con soluzioni che possono piacere o meno ma rappresentano una voglia di innovarsi che in un musicista in età ormai certo non giovanissima, e con una lunga e blasonata carriera alle spalle, non è da dare per scontata, soprattutto in un paese che soffre di tradizionalisimi come l'Italia.

Ai primi ascolti non sono entusiasta come lo fui ai tempi di Dieci Stratagemmi qualche anno or sono, ma a naso si tratta di un'opera che crescerà con il tempo.

PS: una cosa che invece non digerirò facilmente, è l'orrenda copertina, una scelta che nasconderà forse un messaggio estetico di profondissimo valore, ma che nella realizzazione sembra solo dettata da una sconfortante sciatteria.

18 novembre 2012

Nuovo Wovenhand, con furore

Quando arriva qualcosa a nome Wovenhand, o con lo zampino di David Eugene Edwards, mi fiondo senza troppa riflessione.

E quindi eccomi tra le mani il nuovo album, che si presenta col brillante titolo The Laughing Stalk * e con una parimenti brillante (in senso fisico) copertina dai toni cangianti che  mal si presta ad essere riprodotta in foto (maneggiare per credere).

Due segnali fanno comprendere quale fosse la voglia di novità di Edwards per questo sesto album. Il primo è la produzione affidata ad Alexander Hacke (noto soprattutto per la militanza negli Einstürzende Neubauten); il secondo è la rivoluzione dell'organico, che vede la dipartita di Pascal Humbert (già nei 16 Horsepower, in formazione Wovenhad dai tempi di Mosaic), sostituito dal nuovo bassista Gregory Garcia Jr, e l'ingresso del secondo chitarrista Chuck French.

Grazie a queste novità, Laughing Stalk suona decisamente più duro e rumoroso della media degli album precedenti, affiancandosi forse al solo Ten Stones che nel 2008 aveva rappresentato una variante più robusta del classico mix di folk, reminiscenze gothic e alt rock all'americana tipico della band.

Il risultato mi trova però solo parzialmente soddisfatto. Pur apprezzando l'idea di non ripetere stancamente la propria formula, trovo che gli arrangiamenti e in particolare l'arricchimento del suono con la seconda chitarra non siano sempre funzionali all'equilibrio delle composizioni. Funziona alla perfezione sulla traccia di apertura Long Horn, o sul country-punk alla Gun Club di As Wool, ma lascia qualche perplessità su brani come In The Temple che avrebbe forse goduto maggiormente del solito trattamento Wovenhand.

Il meglio questa formazione lo dà probabilmente nell'intensa, cupa e ipnotica Maize, ma anche nella conclusiva e più variegata Glistening Black, ottimo epitaffio per un'opera forse un po' fuori fuoco ma che evita brillantemente il ristagno che si poteva temere dopo The Threshingfloor (un album che, come dicevo due anni fa, sapeva molto di già sentito).



* (storpiatura dell'espressione idiomatica laughing stock che sta ad indicare lo "zimbello del paese", un modo di dire derivante dall'abitudine tardo medievale di assicurare per le caviglie o per i polsi ad assi di legno - gli "stock", appunto - coloro che per colpe di non grave entità venivano esposti al pubblico ludibrio agli angoli delle strade).

10 novembre 2012

Bat For Lashes, bianco e nero

Natasha Khan giunge al terzo capitolo della sua produzione sotto lo pseudonimo Bat For Lashes, proponendoci questo bel dischetto che è The Haunted Man. Dico subito che l'album è molto godibile e non deluderà chi aveva amato il secondo, ma devo anche sottolineare che lascia irrisolti gli interrogativi sulla direzione musicale e sull'identità artistica che erano già sorti in passato.

Se da una parte l'album si presenta con una copertina basata su una semplice, seppur splendida, foto "naked" e in b&w, un segno di rottura rispetto all'immagine di Bat For Lashes costruita sulle coloratissime e strutturate copertine dei due album precedenti, dall'altra parte conferma, una volta messo nel lettore, una certa difficoltà dell'artista inglese nell'affrancarsi dai propri modelli.

Nonostante un evidente sforzo nella semplificazione degli arrangiamenti, che sono più spogli e lasciano modo alle canzoni di venir fuori non appesantite da stratificazioni inutili, sono proprio le scelte compositive e l'uso della voce a riportarmi continuamente alla mente le diverse cantanti alle quali Khan viene inesorabilmente accomunata, su tutte Kate Bush (quella della metà anni '80) e Tori Amos (quella dei primi album). Nulla di male, naturalmente, anzi posso dirmi ben felice di trovare riferimenti a simili illustri esempi in un album pop del 2012. Mi è però difficile, e penso lo sia per qualsiasi ascoltatore dall'orecchio non vergine, farmi un'idea di cosa sarebbe Bat For Lashes senza questi rimandi.

Rimandi che sono tra l'altro inevitabili e probabilmente nemmeno percepiti dalla stessa autrice, la quale ha già certamente il suo bel daffare a rimuovere l'handicap di partenza della propria femminilità, una connotazione che in campo musicale, checchè si sia nel 2012 (anzi la situazione sta forse peggiorando), è sempre difficilmente spendibile se non si vuole puntare su movenze sexy o su banali strimpellamenti folk sentimentali su quanto sia brutto essere mollate dal tipo.

Una nota di merito per i brani più orecchiabili: Laura è un esempio di come si possa essere passati in radio con una canzone canticchiabile ma anche intrigante e non banale. Brava Natasha.