10 luglio 2007

what's your favourite colour?

Partenza in salita ieri sera per l'unica data italiana del tour dei Living Colour: il bus che trasporta la band statunitense in giro per il mondo ha ceduto da qualche parte durante il tragitto per Milano, con conseguente catastrofico ritardo nell'arrivo dei quattro musicisti di New York al Transilvania.

I Living Colour arrivano infine poco dopo le 22, tra gli applausi del pubblico in attesa, che sono costretti ad attraversare per accedere al palco. Pubblico piuttosto folto in considerazione delle piccole dimensioni del locale, ma in definitiva non numerosissimo se si considerano i fasti della formazione in programma.
Un'ora scarsa di check (durante la quale non tutti i problemi verranno risolti, approssimativo ad esempio il suono della batteria) e si parte.
L'attesa a questo punto si rivela totalmente ripagata da una performance di altissimo livello.
Pur stanchi per le peripezie del viaggio e non certo entusiasti dei soliti problemi che assillano chiunque suoni nel locale di via Bruschetti (spazio ridotto all'osso, acustica da suicidio) i quattro musicisti di colore hanno dato grandissima prova della leggendaria perizia di esecutori e del caratteristico mix di generi che li contraddistingue, spaziando, grazie anche a lunghe improvvisazioni, dal rock al funk, dal free jazz all'heavy metal, dall'hip hop al blues, e chi più ne ha più ne metta in un caleidoscopio vorticoso che ha esaltato gli astanti, trascinati più volte al pogo e coinvolti nell'esecuzione della maggior parte dei brani da un Corey Glover in stato di grazia.


Tra i pezzi eseguiti cito, in ordine assolutamente sparso, Funny Vibe, Sacred Ground, Love Rears Its Ugly Head, Glamour Boys, Type (quasi irriconoscibile in un nuovo arrangiamento), Go Away, Memories Can't Wait, Ignorance Is Bliss, Flying, In Your Name, Cult of Personality (come al solito in chiusura del set), What's Your Favorite Color? (in versione estremamente libera).

Indimenticabile il lungo assolo di William Calhoun, in parte accompagnato da improvvisazioni elettroniche di Vernon Reid al laptop Mac, durante il quale il Nostro non solo ha cercato di non farci dimenticare il diploma conseguito al Berklee ormai più di due decenni fa, ma ha dimostrato brillantemente cosa possano fare una grande perizia esecutiva ed ad un abbondante uso di tecnologia e campionamenti se miscelati con gusto musicale ed inventiva.

Numerosi gli inserti chitarristici del mai abbastanza celebrato guitar hero Reid, sempre in bilico tra omaggi hendrixiani, spericolate armonizzazioni jazzistiche, ritmiche funky-disco.

Menzione speciale per Doug Wimbish, vera macchina ritmica per tutta la serata, che ha anche cantato un brano originale di Calhoun (non trascendentale ma molto godibile) con piglio deciso e doti vocali da cantante solista.

Se vi sembra ci sia un po' troppo entusiasmo in questa recensione... beh, è perché non c'eravate.

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