18 luglio 2007

subHuman: electric blues from Alan Wilder.

Ben 7 anni si è fatto attendere Alan Wilder prima di dar seguito al progetto Recoil, avventura solista inaugurata ai tempi in cui ancora militava nei Depeche Mode e poi portata avanti con successo nella seconda metà degli anni '90 con un paio di ottimi album.
L'ho aspettato a lungo questo disco, e quando ho scoperto che stava per essere distribuito ho assaporato un "piacere dell'attesa" che, devo confessare, non provavo più da un po' di tempo. Sarà per questo che quando finalmente l'ho posseduto ed ascoltato, sono rimasto un po' deluso.

E' vero che il prodotto supera di gran lunga la media delle uscite di quest'anno, e sviluppa con coerenza in 7 lunghi brani un discorso già avviato dal musicista britannico nelle opere precedenti. Non lo sviluppa però nella direzione che mi aspettavo, e che avrei preferito. Il disco, pur intenso ed avvolgente, difetta infatti della stupefacente ampiezza cromatica che aveva caratterizzato i suoi due predecessori (Unsound Methods, del 1997, e Liquid, del 2000). Accantonate le scelte più marcatamente trip-hop e le trame più sperimentali, Wilder costruisce con quest'album un efficace mantra blues che tende all'effetto ipnotico più che a quello drammatico ed inquieto che segnava le due opere di fine secolo.

Complice nella costruzione di una atmosfera calda, intensa, ma a tratti un po' monotona, è la scelta delle voci che popolano l'album. Stavolta, anzichè circondarsi di un gran numero di comprimari come nelle due prove precedenti (6 voci si alternano al microfono in Unsound Methods, 5 voci più un quartetto in Liquid), Wilder preferisce affidarsi a due soli interpreti, rinunciando al carattere babelico dei lavori precedenti.
Joe Richardson, grande bluesman americano, interpreta la maggior parte dei brani; Carla Trevaskis, cantante anglosassone che ricorda molto la Kate Bush più eterea, presta la voce solista in due occasioni e appare qua e là in secondo piano.
Le pur bellissime voci (sicuramente di grandissimo valore la prova di Richardson, forse meno convincente Trevaskis che mostra una minore varietà di stile) contribuiscono ad appiattire la sostanza sonora, laddove si desidererebbe qualche spigolo in più.

E' evidente che Wilder abbia cercato in questo disco di accentuare le componenti più blues e a tratti jazz del suo lavoro; e lo ha fatto con la perizia che ci si attende da uno come lui, sia nelle partiture musicali che negli arrangiamenti, tutti di altissima scuola.
Peccato solo per una certa mancanza di coraggio, o forse per la raggiunta "serenità artistica" che ha smussato l'inquietudine e la controllata schizofrenia che si poteva avvertire finora nel progetto Recoil.

Non per questo il disco non risulta godibile, o merita di essere sconsigliato. Piacerà soprattutto a chi ama le belle voci, le atmosfere avvolgenti, il calore del blues. Un po' meno forse agli amanti dell'elettronica.

Una curiosità: Alan non resiste stavolta alla tentazione di citare i Depeche Mode, cosa che non faceva dall'ep Hydrology, pubblicato però quando ancora era parte del fortunato quartetto. Un campione di un brano di Songs of Faith and Devotion si può facilmente riconoscere in almeno due momenti del disco. Quali? Scopritelo, mica posso dirvi tutto!

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