Per qualche motivo continuo ad interessarmi agli Editors, e quindi eccomi qui a discettare del nuovo The Weight Of Your Love, dopo aver sostanzialmente massacrato 4 anni fa il precedente In This Light And On This Evening.
Quarto disco di studio, e primo senza il chitarrista fondatore Chris Urbanowicz, l'album sbaraglia ogni aspettativa e abbandona completamente gli arrangiamenti elettronici del precedente, puntando invece in modo deciso su sonorità chitarristiche di matrice pop-rock.
Un cambio di pelle quasi incredibile, se non fosse stato effettuato da una band che ha già dato prova di essere capace di rinnegare rapidamente il proprio passato senza troppe preoccupazioni. E non è certamente questo il problema, anzi, va ammirata la capacità di rinnovarsi.
Il singolo trainante è stato A Ton Of Love, una canzone indiscutibilmente riuscita, molto orecchiabile e con un refrain ("Desire, desire,...") che solo ai più distratti o (sia detto in senso neutro, per carità) crassamente ignoranti, può non aver riportato alla mente i Simple Minds della seconda metà degli anni '80. Incredibile: una band può passare dal quasi plagio dei New Order al quasi plagio dei Simple Minds, e continuare a sostenere di ispirarsi ai R.E.M. (leggere per credere).N.B. so che è facile dire che plagiano gli U2, ma bisogna citare sempre l'originale e mai una copia.
Ben confezionate anche la canzone di apertura The Weight, come la seconda traccia Sugar, poi giunge il già citato singolo, ma da qui in avanti il resto dell'album è noia mortale: a partire dalla terribile What Is This Thing Called Love (in cui la band entra in "modalità Coldplay") è un susseguirsi di brani che, a prescindere dagli arrangiamenti, sembrano scritti controvoglia e senza alcuna ispirazione. Si salva qualcosina verso la fine ma ormai l'abbiocco è partito e ci si dimentica anche di registrare il nome del brano "meno peggio".
Ciò nonostante, sono qua a citare l'album per alcuni buoni motivi:
- la voce di Tom Smith non passa inosservata, e sarebbe degna di migliori composizioni, per quanto lui cerchi di rovinarsi inanellando un'imitazione dietro l'altra;
- la critica musicale (con le dovute eccezioni, naturalmente) continua a paragonarli alle cose più improbabili, dimostrando quanto poco vengano ascoltati gli album, e questo mi stuzzica sempre (ragazzi, parlare ancora di parallelismi tra questa band e i Joy Division... leggete in giro e ditemi se non è imbarazzante);
- i rari brani azzeccati dalla band sono molto belli, e ormai siamo giunti al punto in cui, con le canzoni buone dei quattro album partoriti fino ad ora, si potrebbe fare un ottimo unico album (pare poco, ma non sono molte le band degli anni '00 di cui si possa dire la stessa cosa).
7 luglio 2013
14 giugno 2013
QOTSA ...Like Clockwork?
Ne è passato di tempo da quando la dissoluzione dei grandissimi Kyuss diede vita ai meno grandi ma non disprezzabili Queens of the Stone Age.
Talmente tanto tempo che di quella formazione è ormai rimasto il solo Josh Homme, e certo è inevitabile che il divario tra le due esperienze, in termini stilistici, sia divenuto enorme, non solo rispetto alla band originaria, ma anche rispetto allo stesso bell'album omonimo d'esordio targato 1996.
Anche perchè la band si è costruita una storia estremamente variegata, fatta di cambi di organico, di sterzate stilistiche e di sperimentazioni più o meno riuscite, fino alla crisi di consensi coincisa con l'uscita dello sfortunato Era Vulgaris (2007).
Sinceramente, credevo che Homme e soci avessero deciso di considerare chiusa l'esperienza, visti anche i progetti paralleli portati avanti (Homme con i Them Crooked Vultures, Dean Fertita con i Dead Weather). Invece i supersititi hanno dato seguito ai ripetuti annunci che si susseguivano da un paio d'anni, ed hanno dato vita al sesto album come QOTSA, intitolato ...Like Clockwork, un'espressione che sembra essere frutto di un certo umorismo, vista la genesi tormentata dell'album.
Non entro in dettagli su chi sia entrato e chi sia uscito dalla band, su quanti ospiti ci siano nelle varie tracce e così via (si, ok, vi dico solo che c'è Mark Lanegan, ma dov'è che non sta?). Vorrei invece soffermarmi su quello che l'album sembra promettere, salvo poi farsi sfuggire tra le mani man mano che l'ascolto va avanti.
Innanzi tutto, è un album sorprendentemente coeso, niente a che vedere con la gran confusione di stili percepita soprattutto nelle ultime prove. Sembra per la prima volta che Homme abbia puntato su un lavoro molto a fuoco, con sonorità che ritornano canzone per canzone, e brani concisi che puntano al dunque e filano via in breve. Un'ottima cosa, peccato che la qualità della musica prodotta non faccia il paio con l'impegno profuso.
Non è un disco brutto, ma molto dimenticabile. E i brani che restano impressi sono fin troppo "facili" e stufano in breve. Forse è stato pensato con intenti eccessivamente commerciali (come i video promozionali con target adolescenziale farebbero ipotizzare) o forse, al contrario, si è cercata un'"opera della maturità" che, in tal caso, deve ancora arrivare. Un ascolto gradevole, ma lo metto nella lista dei dischi da comprare in special-special-price.
Talmente tanto tempo che di quella formazione è ormai rimasto il solo Josh Homme, e certo è inevitabile che il divario tra le due esperienze, in termini stilistici, sia divenuto enorme, non solo rispetto alla band originaria, ma anche rispetto allo stesso bell'album omonimo d'esordio targato 1996.
Anche perchè la band si è costruita una storia estremamente variegata, fatta di cambi di organico, di sterzate stilistiche e di sperimentazioni più o meno riuscite, fino alla crisi di consensi coincisa con l'uscita dello sfortunato Era Vulgaris (2007).
Sinceramente, credevo che Homme e soci avessero deciso di considerare chiusa l'esperienza, visti anche i progetti paralleli portati avanti (Homme con i Them Crooked Vultures, Dean Fertita con i Dead Weather). Invece i supersititi hanno dato seguito ai ripetuti annunci che si susseguivano da un paio d'anni, ed hanno dato vita al sesto album come QOTSA, intitolato ...Like Clockwork, un'espressione che sembra essere frutto di un certo umorismo, vista la genesi tormentata dell'album.
Non entro in dettagli su chi sia entrato e chi sia uscito dalla band, su quanti ospiti ci siano nelle varie tracce e così via (si, ok, vi dico solo che c'è Mark Lanegan, ma dov'è che non sta?). Vorrei invece soffermarmi su quello che l'album sembra promettere, salvo poi farsi sfuggire tra le mani man mano che l'ascolto va avanti.
Innanzi tutto, è un album sorprendentemente coeso, niente a che vedere con la gran confusione di stili percepita soprattutto nelle ultime prove. Sembra per la prima volta che Homme abbia puntato su un lavoro molto a fuoco, con sonorità che ritornano canzone per canzone, e brani concisi che puntano al dunque e filano via in breve. Un'ottima cosa, peccato che la qualità della musica prodotta non faccia il paio con l'impegno profuso.
Non è un disco brutto, ma molto dimenticabile. E i brani che restano impressi sono fin troppo "facili" e stufano in breve. Forse è stato pensato con intenti eccessivamente commerciali (come i video promozionali con target adolescenziale farebbero ipotizzare) o forse, al contrario, si è cercata un'"opera della maturità" che, in tal caso, deve ancora arrivare. Un ascolto gradevole, ma lo metto nella lista dei dischi da comprare in special-special-price.
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9 giugno 2013
Alice and the Devil
Superato il trauma della "sostituzione impossibile" del deceduto Layne Staley col nuovo cantante William DuVall, concretizzatasi quattro anni fa con la pubblicazione dell'ottimo Black Gives Way To Blue, gli Alice In Chains tornano con un nuovo album di studio.
Le dodici tracce di The Devil Put Dinosaurs Here spaziano in direzioni diverse, ma come nel lavoro precedente si mantengono nel solco della tradizione sonora della band, il cui marchio di fabbrica si conferma essere a questo punto nient'altro che la visione musicale del chitarrista - nonchè autore di tutte le tracce - Jerry Cantrell.
Il disco si apre benissimo: Hollow è una di quelle canzoni senza tempo che potrebbero essere nate all'epoca di Dirt, un'aggressione di chitarre sludge che fonde, in una ricetta ormai nota ai fan, lo stile dei vecchi Black Sabbath con i vocalismi grunge più incattiviti. Lo stesso si può dire delle successive Pretty Done (che aggiunge una marcata venatura psichedelica) e Stone, quest'ultima contraddistinta dall'alternanza furbesca di aggressività e distensione, un meccanismo anche questo già classico. La quarta traccia Voices rischiara la scena e si rivela per uno di quei gioielli alla AiC in cui chitarre acustiche ed elettriche si intrecciano in una sorta di ballata dai toni più positivi.
Per dare la cifra del disco basterebbe fermarsi qui - e infatti mi fermo per non risultare inutilmente prolisso - perchè le successive 8 tracce non fanno che ripetere i medesimi schemi, con una menzione d'onore per la splendida Phantom Limb, una lunga cavalcata cupa e ben degna di entrare a far parte del repertorio della band.
L'album soffre però di alcuni problemi piuttosto evidenti. Da un lato, non c'è alcuna traccia di innovazione, per cui ci si trova davanti a composizioni di buon livello, alcune anche ottime, ma prive di qualsiasi sorpresa, al punto che tra qualche tempo si potrebbe non ricordare più da quale album provengano. Dall'altro, l'album dura la bellezza di 67 minuti, con durate medie superiori ai 5 minuti, non sempre giustificabili con necessità compositive: qualche taglio qua e là ci starebbe, sia nel minutaggio delle singole tracce, sia nella scaletta, che poteva magari avvantaggiarsi di una riduzione a dieci brani. E infine, appunto, la scaletta stessa: l'ordine delle canzoni mi lascia un po' perplesso, alcuni passaggi inchiodano un po' la scorrevolezza dell'ascolto, vedi ad esempio proprio il brusco passaggio al panorama acustico e solare della quarta traccia dopo le tre bordate iniziali, elettriche e oscure.
Nonostante la più che piena sufficienza, e alcuni picchi notevoli, non posso nascondere una mezza delusione, visto che con le potenzialità sul campo sarebbe lecito aspettarsi da questa band un album vicino alla perfezione.
Le dodici tracce di The Devil Put Dinosaurs Here spaziano in direzioni diverse, ma come nel lavoro precedente si mantengono nel solco della tradizione sonora della band, il cui marchio di fabbrica si conferma essere a questo punto nient'altro che la visione musicale del chitarrista - nonchè autore di tutte le tracce - Jerry Cantrell.
Il disco si apre benissimo: Hollow è una di quelle canzoni senza tempo che potrebbero essere nate all'epoca di Dirt, un'aggressione di chitarre sludge che fonde, in una ricetta ormai nota ai fan, lo stile dei vecchi Black Sabbath con i vocalismi grunge più incattiviti. Lo stesso si può dire delle successive Pretty Done (che aggiunge una marcata venatura psichedelica) e Stone, quest'ultima contraddistinta dall'alternanza furbesca di aggressività e distensione, un meccanismo anche questo già classico. La quarta traccia Voices rischiara la scena e si rivela per uno di quei gioielli alla AiC in cui chitarre acustiche ed elettriche si intrecciano in una sorta di ballata dai toni più positivi.
Per dare la cifra del disco basterebbe fermarsi qui - e infatti mi fermo per non risultare inutilmente prolisso - perchè le successive 8 tracce non fanno che ripetere i medesimi schemi, con una menzione d'onore per la splendida Phantom Limb, una lunga cavalcata cupa e ben degna di entrare a far parte del repertorio della band.
L'album soffre però di alcuni problemi piuttosto evidenti. Da un lato, non c'è alcuna traccia di innovazione, per cui ci si trova davanti a composizioni di buon livello, alcune anche ottime, ma prive di qualsiasi sorpresa, al punto che tra qualche tempo si potrebbe non ricordare più da quale album provengano. Dall'altro, l'album dura la bellezza di 67 minuti, con durate medie superiori ai 5 minuti, non sempre giustificabili con necessità compositive: qualche taglio qua e là ci starebbe, sia nel minutaggio delle singole tracce, sia nella scaletta, che poteva magari avvantaggiarsi di una riduzione a dieci brani. E infine, appunto, la scaletta stessa: l'ordine delle canzoni mi lascia un po' perplesso, alcuni passaggi inchiodano un po' la scorrevolezza dell'ascolto, vedi ad esempio proprio il brusco passaggio al panorama acustico e solare della quarta traccia dopo le tre bordate iniziali, elettriche e oscure.
Nonostante la più che piena sufficienza, e alcuni picchi notevoli, non posso nascondere una mezza delusione, visto che con le potenzialità sul campo sarebbe lecito aspettarsi da questa band un album vicino alla perfezione.
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2 giugno 2013
Re-Mit: The Fall numero 30
Difficile, al 30° album di studio, dire qualcosa di nuovo su una band che, diceva John Peel, "non ha mai fatto un album brutto". Giudizio opinabile come qualsiasi giudizio personale, ma non troppo lontano dalla realtà se si considera che si tratta di un pensiero piuttosto condiviso dalla critica e dai fan della band di Mark E. Smith.
Diciamo allora un paio di notizie. Si, questo è proprio il numero 30, senza ombra di dubbio (secondo i miei calcoli, pare invece proprio il 29°). Aggiungendo live, raccolte e quant'altro, il numero triplica, se non peggio. Incredibile a dirsi, questo è il quarto album di fila con la medesima formazione. Un assoluto record per un gruppo che possiede addirittura una pagina dedicata ai propri cambi di organico su Wikipedia.
Re-Mit si segnala, musicalmente parlando, soprattutto per l'abbandono della formula "basso rutilante e cattivo, chitarra rombante, voce incazzosa" che era diventata un po' stanca sul precedente Ersatz G.B (ma aveva dato il meglio nell'eccellente Your Future Our Clutter), e per la maggiore varietà di stili ed esperimenti. Spesso la linea di basso resta indietro e dà spazio ai notevoli riff chitarristici (mai banali in questa raccolta). Il mood sembra in generale meno astioso, con qualche asperità in meno e qualche vaga cupezza in più. Ma sono sfumature. Al solito, la compagna di Smith e tastierista Elena Poulou interviene con la propria voce in un brano; come al solito, Smith se la prende in un altro con qualche gruppo che non gli va giù (stavolta tocca agli LCD: "James Murphy is their chief/They show their bollocks when they eat").
Per il resto, posso solo consigliarvi di aggiungerlo alla "collezione delle figurine" dei vostri album dei Fall, senza tema di rimanere troppo delusi. E poi la copertina è brutta abbastanza da meritare di essere posta di fianco alla precedente.
Diciamo allora un paio di notizie. Si, questo è proprio il numero 30, senza ombra di dubbio (secondo i miei calcoli, pare invece proprio il 29°). Aggiungendo live, raccolte e quant'altro, il numero triplica, se non peggio. Incredibile a dirsi, questo è il quarto album di fila con la medesima formazione. Un assoluto record per un gruppo che possiede addirittura una pagina dedicata ai propri cambi di organico su Wikipedia.
Re-Mit si segnala, musicalmente parlando, soprattutto per l'abbandono della formula "basso rutilante e cattivo, chitarra rombante, voce incazzosa" che era diventata un po' stanca sul precedente Ersatz G.B (ma aveva dato il meglio nell'eccellente Your Future Our Clutter), e per la maggiore varietà di stili ed esperimenti. Spesso la linea di basso resta indietro e dà spazio ai notevoli riff chitarristici (mai banali in questa raccolta). Il mood sembra in generale meno astioso, con qualche asperità in meno e qualche vaga cupezza in più. Ma sono sfumature. Al solito, la compagna di Smith e tastierista Elena Poulou interviene con la propria voce in un brano; come al solito, Smith se la prende in un altro con qualche gruppo che non gli va giù (stavolta tocca agli LCD: "James Murphy is their chief/They show their bollocks when they eat").
Per il resto, posso solo consigliarvi di aggiungerlo alla "collezione delle figurine" dei vostri album dei Fall, senza tema di rimanere troppo delusi. E poi la copertina è brutta abbastanza da meritare di essere posta di fianco alla precedente.
1 giugno 2013
Peter Murphy plays Bauhaus, Milano, 27/05/2013
Mr Moonlight Tour - Celebrating 35 years of Bauhaus
Senza commenti, il concerto completo di Peter Murphy ai Magazzini Generali di Milano, il 27/05/2013.
"Per chi l'ha visto e per chi non c'era"... Ringraziate "lasyboylive" che lo ha caricato sul Tubo.
23 maggio 2013
False Idols, real Tricky?
False Idols è il nuovo album di Tricky, il nono della sua carriera, o il decimo se si conta anche la collaborazione con DJ Muggs + Grease del 1999. Dieci dischi son tanti, e azzardo allora un piccolo consuntivo.
La carriera del musicista di Bristol ha seguito una curva molto incostante, con picchi qualitativamente altissimi agli esordi (lo strabiliante Maxinquaye, l'inquietante Nearly God) e qualche punto molto basso nei primi del millennio (il traballante Blowback, l'atroce Vulnerable), per poi tornare almeno alla dignità negli ultimi anni: Knowle West Boy nel 2008 era stato un ritorno più che rispettabile.
Proprio con l'album del 2008 si era aperta una sorta di "nuovo corso", con ritmi più upbeat, produzione brillante, smussatura delle spigolature più "dark" e predominanza dell'elettronica sul trip hop, pur mantenendo una certa inquietudine di fondo. Solco nel quale si poneva, con risultati forse meno riusciti ma non disprezzabili, anche la prova del 2010 Mixed Race.
Ma evidentemente Tricky si è stufato ed ha pensato di tornare ad atmosfere più fumose ed oscure, che si ricongiungono alla prima parte della sua carriera, se non per qualità almeno per ispirazione. False Idols si avvale della collaborazione di Francesca Belmonte, la cui voce prende spesso il sopravvento su quella di Tricky, il quale si limita in molti brani a sussurrare su basi minimali e malinconiche, lasciando alla voce femminile la parte dominante.
Tirando le somme, si tratta di un disco pieno di classe, che scorre via piacevolmente, raffinato e in qualche caso riuscitamente ammaliante, ma non straordinario. Un episodio insomma apprezzabile, ma ancora lontano dai veri fasti del cantante di Bristol, ormai lontanissimi nel tempo.
La carriera del musicista di Bristol ha seguito una curva molto incostante, con picchi qualitativamente altissimi agli esordi (lo strabiliante Maxinquaye, l'inquietante Nearly God) e qualche punto molto basso nei primi del millennio (il traballante Blowback, l'atroce Vulnerable), per poi tornare almeno alla dignità negli ultimi anni: Knowle West Boy nel 2008 era stato un ritorno più che rispettabile.
Proprio con l'album del 2008 si era aperta una sorta di "nuovo corso", con ritmi più upbeat, produzione brillante, smussatura delle spigolature più "dark" e predominanza dell'elettronica sul trip hop, pur mantenendo una certa inquietudine di fondo. Solco nel quale si poneva, con risultati forse meno riusciti ma non disprezzabili, anche la prova del 2010 Mixed Race.
Ma evidentemente Tricky si è stufato ed ha pensato di tornare ad atmosfere più fumose ed oscure, che si ricongiungono alla prima parte della sua carriera, se non per qualità almeno per ispirazione. False Idols si avvale della collaborazione di Francesca Belmonte, la cui voce prende spesso il sopravvento su quella di Tricky, il quale si limita in molti brani a sussurrare su basi minimali e malinconiche, lasciando alla voce femminile la parte dominante.
Tirando le somme, si tratta di un disco pieno di classe, che scorre via piacevolmente, raffinato e in qualche caso riuscitamente ammaliante, ma non straordinario. Un episodio insomma apprezzabile, ma ancora lontano dai veri fasti del cantante di Bristol, ormai lontanissimi nel tempo.
22 maggio 2013
Mick Harvey, Four Acts of LOVE
Mick Harvey deve averci preso gusto, e ad "appena" due anni di distanza da Sketches From The Book Of The Dead torna con una nuova fatica discografica (si, l'ho scritto apposta, sa così tanto di antico giornalismo musicale italico).
Mentre l'album precedente non mi aveva esaltato (anche se era il tipico esempio di raccolta che si fa apprezzare sempre più col tempo), questo nuovo Four (Acts of Love) mi è piaciuto all'istante. Sarà l'insieme più orecchiabile, sarà la varietà musicale più ampia, sarà forse anche che su tratta di un gran bel disco suonato bene, appassionato e a tratti toccante.
Dopo il precedente album dedicato ai ritratti-omaggio di diversi amici trapassati, stavolta Harvey ha concepito una sorta di concept dedicato all'amore romantico ed alle sue diverse sfaccettature. Collegati tra loro in un ciclo ideale in tre fasi, si mescolano 10 brani nuovi, di cui uno scritto da PJ Harvey (Glorious), e a 4 cover: The Story of Love dei Saints, The Way Young Lovers Do di Van Morrison, Summertime in New York degli Exuma e Wild Hearts (Run Out of Time) di Roy Orbison.
Forse la vetta artistica di un musicista che sembra aver trovato una nuova giovinezza dopo essersi affrancato dall'ombra del vecchio sodale Nick Cave.
Act 1 – SUMMERTIME IN NEW YORK
1. Praise the Earth (Wheels of Amber and Gold)
2. Glorious
3. Midnight on the Ramparts
4. Summertime in New York
5. Where There’s Smoke (before)
Act 2 – THE STORY OF LOVE
6. God Made the Hammer
7. I Wish That I Were Stone
8. The Way Young Lovers Do
9. A Drop, An Ocean
10. The Story of Love
Act 3 – WILD HEARTS RUN OUT OF TIME
11. Where There’s Smoke (after)
12. Wild Hearts
13. Fairy Dust
14. Praise the Earth (An Ephemeral Play)
Mentre l'album precedente non mi aveva esaltato (anche se era il tipico esempio di raccolta che si fa apprezzare sempre più col tempo), questo nuovo Four (Acts of Love) mi è piaciuto all'istante. Sarà l'insieme più orecchiabile, sarà la varietà musicale più ampia, sarà forse anche che su tratta di un gran bel disco suonato bene, appassionato e a tratti toccante.
Dopo il precedente album dedicato ai ritratti-omaggio di diversi amici trapassati, stavolta Harvey ha concepito una sorta di concept dedicato all'amore romantico ed alle sue diverse sfaccettature. Collegati tra loro in un ciclo ideale in tre fasi, si mescolano 10 brani nuovi, di cui uno scritto da PJ Harvey (Glorious), e a 4 cover: The Story of Love dei Saints, The Way Young Lovers Do di Van Morrison, Summertime in New York degli Exuma e Wild Hearts (Run Out of Time) di Roy Orbison.
Forse la vetta artistica di un musicista che sembra aver trovato una nuova giovinezza dopo essersi affrancato dall'ombra del vecchio sodale Nick Cave.
Act 1 – SUMMERTIME IN NEW YORK
1. Praise the Earth (Wheels of Amber and Gold)
2. Glorious
3. Midnight on the Ramparts
4. Summertime in New York
5. Where There’s Smoke (before)
Act 2 – THE STORY OF LOVE
6. God Made the Hammer
7. I Wish That I Were Stone
8. The Way Young Lovers Do
9. A Drop, An Ocean
10. The Story of Love
Act 3 – WILD HEARTS RUN OUT OF TIME
11. Where There’s Smoke (after)
12. Wild Hearts
13. Fairy Dust
14. Praise the Earth (An Ephemeral Play)
20 maggio 2013
Karl Hyde, Edgeland
Amo davvero il suono della voce di Karl Hyde, sin dai tempi della scoperta dei fantastici Freur a fine anni '80 (si, con un certo ritardo, grazie Luke!). Con la gioia accessoria di una seconda ri-scoperta, quando rimasi invischiato negli Underworld della seconda metà degli anni '90, solo per scoprire che c'era la stessa persona dietro quell'affascinante macchina da sogni ballardiani elettronici, che ha disegnato il paesaggio sonoro di fine millennio.
Mi spiace dunque ammettere che, nonostante mi ci sia messo d'impegno, non sono riuscito ad apprezzare troppo la sua prima opera solista.
Edgeland è sostanzialmente un album di canzoni, senza troppi rimandi allo "stile Underworld": Hyde ha voluto un album da cantante, anzi come diremmo in Italia, da "cantautore". Voce in primo piano, dunque, musica nata in solitudine probabilmente con un'acustica o al piano, poi infilata successivamente in strutture che in maggioranza si piegano al testo, e vestita di sonorità che seppure curate maniacalmente non diventano mai protagoniste della scena, ma restano sempre funzionali al brano.
Tutto questo è perfettamente sensato e coincide esattamente con quanto mi attendevo. Il problema sta nel fatto che l'album scorre via troppo lento, con soluzioni molto ripetitive, ed offre solo una manciata di attimi davvero memorabili. Mi pare che il classico flusso di coscienza alla Hyde non si adatti troppo ad una raccolta di canzoni, oppure che il cantante semplicemente non sia riuscito a scrivere un numero sufficiente di canzoni degne di nota. Ed è una occasione sciupata, perchè c'è classe da vendere, e forse una più accorta scelta delle strutture avrebbe giovato. Bellissima ad esempio l'apertura col primo brano The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress, dove l'amalgama sonoro e il suono della voce rasentano la perfezione, ma per il sussulto successivo si deve attendere quasi in chiusura Shadow Boy, che offre uno sviluppo dinamico in crescendo e finalmente strappa un sorriso di approvazione.
Forse il desiderio di suonare sufficientemente pop, o quello di non suonarlo troppo, hanno nuociuto all'equilibrio dell'album. Stranamente, uno dei brani che mi hanno colpito in modo più favorevole è incluso solo nell'edizione deluxe: Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams smuove un po' le acque e restituisce vitalità ad un album altrimenti davvero troppo statico.
Non ho visto il film sul DVD dell'edizione Deluxe; ma conoscendo le precedenti opere visuali di cui si è occupato Hyde, potrebbe essere più interessante dell'album.
CD
01. The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress
02. Your Perfume Was The Best Thing
03. Angel Cafe
04. Cut Clouds
05. The Boy With The Jigsaw Puzzle Fingers
06. Slummin’ It For The Weekend
07. Shoulda Been A Painter
08. Shadow Boy
09. Sleepless
10. Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams (Deluxe Edition Bonus Track)
11. Final Ray Of The Sun (Deluxe Edition Bonus Track)
12. Out Of Darkness (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
13. Cascading Light (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
14. Slummin’ It For The Weekend (Deluxe Edition Bonus Version Mixed By Brian Eno)
15. Cut Clouds (Figures Remix) (Deluxe Edition Bonus Track)
DVD (Deluxe Edition)
The Outer Edges (Edgeland Version) (A Keran Evens Film)
Mi spiace dunque ammettere che, nonostante mi ci sia messo d'impegno, non sono riuscito ad apprezzare troppo la sua prima opera solista.
Edgeland è sostanzialmente un album di canzoni, senza troppi rimandi allo "stile Underworld": Hyde ha voluto un album da cantante, anzi come diremmo in Italia, da "cantautore". Voce in primo piano, dunque, musica nata in solitudine probabilmente con un'acustica o al piano, poi infilata successivamente in strutture che in maggioranza si piegano al testo, e vestita di sonorità che seppure curate maniacalmente non diventano mai protagoniste della scena, ma restano sempre funzionali al brano.
Tutto questo è perfettamente sensato e coincide esattamente con quanto mi attendevo. Il problema sta nel fatto che l'album scorre via troppo lento, con soluzioni molto ripetitive, ed offre solo una manciata di attimi davvero memorabili. Mi pare che il classico flusso di coscienza alla Hyde non si adatti troppo ad una raccolta di canzoni, oppure che il cantante semplicemente non sia riuscito a scrivere un numero sufficiente di canzoni degne di nota. Ed è una occasione sciupata, perchè c'è classe da vendere, e forse una più accorta scelta delle strutture avrebbe giovato. Bellissima ad esempio l'apertura col primo brano The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress, dove l'amalgama sonoro e il suono della voce rasentano la perfezione, ma per il sussulto successivo si deve attendere quasi in chiusura Shadow Boy, che offre uno sviluppo dinamico in crescendo e finalmente strappa un sorriso di approvazione.
Forse il desiderio di suonare sufficientemente pop, o quello di non suonarlo troppo, hanno nuociuto all'equilibrio dell'album. Stranamente, uno dei brani che mi hanno colpito in modo più favorevole è incluso solo nell'edizione deluxe: Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams smuove un po' le acque e restituisce vitalità ad un album altrimenti davvero troppo statico.
Non ho visto il film sul DVD dell'edizione Deluxe; ma conoscendo le precedenti opere visuali di cui si è occupato Hyde, potrebbe essere più interessante dell'album.
CD
01. The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress
02. Your Perfume Was The Best Thing
03. Angel Cafe
04. Cut Clouds
05. The Boy With The Jigsaw Puzzle Fingers
06. Slummin’ It For The Weekend
07. Shoulda Been A Painter
08. Shadow Boy
09. Sleepless
10. Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams (Deluxe Edition Bonus Track)
11. Final Ray Of The Sun (Deluxe Edition Bonus Track)
12. Out Of Darkness (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
13. Cascading Light (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
14. Slummin’ It For The Weekend (Deluxe Edition Bonus Version Mixed By Brian Eno)
15. Cut Clouds (Figures Remix) (Deluxe Edition Bonus Track)
DVD (Deluxe Edition)
The Outer Edges (Edgeland Version) (A Keran Evens Film)
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