28 ottobre 2008

4:13 Dream comes true

E infine eccolo qua, l'album di cui ho parlato e riparlato.
Uscito con un po' di ritardo rispetto alla data inizialmente prevista (che avrebbe dovuto essere il 13 settembre), il nuovo disco dei Cure (tredicesimo della carriera) non fa rimpiangere l'attesa, mostrandosi molto al di sopra delle aspettative e, pur con i limiti di cui parlerò più avanti, riportando i Cure ad un livello di forma che mancava ormai da tre lustri.

Gran parte del merito si deve probabilmente al reintegro dei ranghi dello storico membro Porl Thompson, avvenuto nell'intervallo tra il precedente The Cure ed il nuovo 4:13 Dream, ed al contemporaneo snellimento della formazione che ha perso (per motivi mai chiariti, ma pare per licenziamento in tronco) del chitarrista Perry Bamonte e del tastierista Roger O'Donnell.

A prescindere da valutazioni sul merito dei singoli componenti, passati e presenti, è evidente quanto il sound della band tragga giovamento dal cambio, arricchendosi di tonalità che erano decisamente mancate nell'appiattimento degli ultimi due album.

Ma 4:13 Dream gioca soprattutto la carta del revival, riportando gli orologi dalle parti del 1992, e pescando a man bassa dai luoghi comuni dei Cure di Disintegration e di Wish, ma anche da prima ancora se si considera ad esempio che il brano Sleep When I'm Dead pare provenga dalle session di The Head On The Door (1985). L'operazione, dal punto di vista musicale, funziona: le tredici canzoni convincono per spessore ed interpretazione, il disco scorre via che è un piacere ed offre anche una discreta variazione di stati d'animo (ricordate i selvaggi cambi d'umore del 1996?), sebbene sia stato assemblato con una maggioranza di composizioni upbeat e con diversi potenziali singoli oltre ai quattro già pubblicati.

Per contro, è proprio questo effetto deja-vu a rappresentarne la principale debolezza. I Cure oggi sono un gruppo che torna indietro e non presenta nulla di nuovo, sterzando da una strada che si stava rivelando infruttuosa ma effettuando una inversione ad U che non punta certamente verso il futuro. Sarebbe stato certamente difficile aspettarsi qualcosa di diverso dopo più di trent'anni di carriera; ma Bobby Smith non era quello che aveva dichiarato da qualche parte negli anni '80 che i "dinosauri" erano da disprezzare e che i gruppi dovrebbero sciogliersi al terzo album proprio per evitare la ripetizione? Beh, sicuramente l'età e l'esperienza hanno mutato la sua opinione.

Il set inizia con Underneath The Stars, che riparte dai campanellini che aprivano Disintegration, e riproduce fedelmente il mood di quell'album così amato dai fan. L'atmosfera sognante e le sonorità stratificate del primo brano vengono però subito smentite da The Only One, il primo dei quattro singoli estratti dall'album. Una canzone pop in perfetto stile Smith, che ricorda da vicino lo stile di Wish. Forse non particolarmente brillante, ma finalmente, dopo una infilzata di songoli molto fiacchi negli anni scorsi, ammiccante al punto giusto e con un ritornello che si ficca in testa. The Reasons Why è un bel brano dallo sviluppo tutt'altro che banale, caratterizzato da tante chitarre e dal basso a 6 corde, e da un eccellente chorus che si candida tra le migliori cose del disco. Freakshow è il secondo singolo, una ventata di genio funky che avrebbe potuto comparire nella scaletta di Kiss Me, molto radiofonica e con una frizzante interpretazione vocale. Sirensong è una piccola canzone che riporta subito alla mente le cose migliori di Wild Mood Swings: una chitarra slide e poche note di piano sul tessuto intrecciato dal basso danno vita ad uno dei momenti più esotici del lotto. The Real Snow White è invece la composizione che più si avvicina nello stile all'album precedente, e pur avendo una certa presa non mi pare degna di grande nota. Vanta un ritornello discreto e non molto altro. The Hungry Ghost è di tutt'altra pasta: ha uno sviluppo interessante e si fregia soprattutto di un grande Thompson, soprattutto in veste solista nel finale. Segue Switch, un rock frenetico assimilabile a diverse esperienze precedenti: chitarra wah in puro "stile Porl", grande lavoro di effetti sulla voce. The Perfect Boy, terzo e più debole tra i singoli, ci riporta con i piedi sulla terra: una canzoncina gradevole (sempre al di sopra dei singoli di The Cure) ma nulla di più. La successiva This. Here and now. With You, pur con analoghe caratteristiche pop, si pone ad un livello molto più alto, grazie anche ad un arrangiamento più originale ed all'ottima parte vocale. Sleep When I'm Dead è il quarto singolo e forse il migliore: intro memorabile, strofa scatenata con Gallup preciso come un martello funky e Thompson alla rifinitura, ritornello alla Cure anni '80 che di più non si può. Certamente un regalo per i fan di vecchia data. The Scream sterza infine verso un sound più orientaleggiante ed oscuro, abbandonando le velleità pop e restituendoci i migliori Cure alla The Top, con un crescendo delirante che si sfoga più volte con le urla di uno Smith in gran spolvero. Si chiude con la splendida It's Over, un quattro quarti rock che conserva lo spirito del brano precedente e si inserisce nella tradizione dei finali "alla Cure" (vedi Fight ed End, per citarne solo due).

Il bilancio è di almeno quattro grandi canzoni rock e di un paio di ottimi singoli, con il restante materiale ben sopra la media: niente male, a conti fatti. Chiudo con la speranza che il fantomatico "dark album" - a quanto pare ricavabile dai brani più lenti realizzati nelle sessioni per questo disco, che avrebbero partorito circa ventisei canzoni - veda effettivamente la luce e ci offra un panorama analogo in quanto a qualità e varietà.

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